Ridurre il rischio di sviluppare una demenza del 40%, oggi si può.
Come accettiamo la prevenzione come forma di lotta per le malattie cardiache, così dobbiamo adottare una simile mentalità scientifica per contrastare la demenza
Prof. Ronald Petersen Mayo Clinic
Nonostante la prevenzione delle demenze sia un argomento ancora poco considerato dalla comunità scientifica e ancor meno conosciuto dalla maggioranza delle persone, le evidenze scientifiche stanno suscitando enorme interesse tra i clinici e le figure professionali di tutto il mondo che, a vario titolo, si occupano di demenza.
Per la sua gravità (assenza di una terapia risolutiva, prognosi di oltre 10 anni, difficoltà assistenziali, etc.), diffusione (sia per prevalenza che per incidenza) e per generare, di conseguenza, una notevole pressione sull’intero sistema socio-sanitario-economico di ogni Stato, l’Organizzazione Mondiale della Sanità considera questa malattia una priorità di salute pubblica (OMS e ADI 2016).
Proprio perché in grado di attenuare questa notevole pressione, la prevenzione primaria dovrebbe rappresentare un utile risorsa da utilizzare diffusamente nelle strategie messe in atto dai governi per contrastare la preoccupante crescita della demenza.
Si stima che nel mondo siano oltre 55 milioni le persone affette da una qualche forma di demenza (World Alzheimer Report 2021), con proiezioni che arrivano a 78 milioni di malati nel 2030 per raggiungere i 135 milioni nel 2050 e che almeno il 75% delle persone con demenza non ha avuto, per varie ragioni, una diagnosi corretta (World Alzheimer Report 2015-2021).
Di prevenzione primaria nelle demenza, in realtà se ne discute in ambito scientifico da almeno 25 anni, perlomeno dal pioneristico lavoro dell’università della Virginia (R. Brookheimer et al., 1998) in cui si evidenziava come ritardare la comparsa dei sintomi della demenza, poteva incidere sulla prevalenza. Da quell’illuminate lavoro scientifico, gli studi sui potenziali fattori di rischio e sui fattori protettivi, hanno via via suggerito di prendere in seria considerazione anche la prevenzione primaria tra le forme d’intervento per affrontare la demenza.
Riuscire a ritardare anche di un solo anno la diagnosi di demenza porterebbe ad una riduzione di almeno 9.2 milioni di persone con demenza nel mondo (R. Brookheimer et al., 2007).
Patologie come l’ipertensione arteriosa, il diabete, l’ipercolesterolemia, l’obesità, innalzerebbero pericolosamente i livelli infiammatori e lo stress ossidativo aumentando, di conseguenza, i rischio di sviluppare una demenza soprattutto di tipo vascolare (L.E. Middleton, C. Yaffe 2009).
Oltre a queste condizioni cliniche ed altre come la depressione, sono correlate alla demenza anche una dieta squilibrata, il fumo, l’inattività fisica, l’abuso di alcol, i disturbi del sonno e la sedentarietà. Questi fattori legati allo stile di vita sembrerebbero contribuire a danneggiare il cervello favorendo i processi infiammatori e ossidativi (S. Sindi et al., 2015).
Gli interventi di prevenzione primaria che secondo le evidenze degli studi presi in considerazione, ovvero solo i randomized controlled trials RCTs (R.L. Kane et al., 2017), sembrerebbero in grado di rallentare l’invecchiamento naturale e patologico del cervello svolgendo così una funzione altamente protettiva dalla possibilità di sviluppare una demenza (Trojanowski et al., 2010; Plassman et al., 2010; Andrieu S. et al., 2011; NASEM National Accademy of Sciences Engineering Medicine 2017; Emily Sohn 2018; R. Collins et al., 2019; L. Orgeta et al., 2019; C. Ritchie, EPAD (European Prevention of Alzheimer’s Dementia) Consortium in Alzheimer Disease International Report 2018).
Le evidenze fornite dalla letteratura scientifica hanno portato l’osservatorio mondiale sulle demenze, l’Alzheimer Disease International (ADI), ad inserire gli interventi di prevenzione primaria e di riduzione dei fattori di rischio, tra le azioni consigliate ai governi da intraprendere nella lotta alla demenza (World Alzheimer Report 2015-2018).
Questo importante suggerimento è stato colto tempestivamente solo in parte e non adeguatamente da tutti i governi, tantevvero che il numero di malati affetti da demenza è in continua e costante crescita in tutto il mondo (World Alzheimer Report 2021). Una situazione particolarmente allarmante che si prevede peggiorerà ancora dopo la pandemia da Covid-19 che inevitabilmente porterà ad un drammatico aumento del numero di malati in tutto il mondo, essenzialmente per due importanti ragioni: la prima, perché in questi due anni di restrizioni, per evitare l’aumento dei contagi, molte persone, soprattutto anziane, non hanno potuto accedere facilmente ai servizi sanitari pubblici per effettuare una visita diagnostica e la seconda, perché gli effetti a lungo termine della Covid-19 sembrano influenzare negativamente anche le attività cerebrali, problema riscontrato soprattutto tra la popolazione over 75 (V. Mok et al., 2020; S. Lopez-leon et al., 2021).
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO guidelines 2019) ha indicato nelle sue linee guida tutte le evidenze scientifiche e le raccomandazioni per la riduzione e il trattamento dei fattori di rischio e per l’implementazione dei fattori protettivi nelle demenze.
Il concetto di prevenzione primaria, legata ad uno stile di vita sano, dovrebbe essere massimamente disseminato tra la popolazione adulta sana, ma soprattutto dovrebbe essere divulgato tra i giovani. Infatti una vero progetto di prevenzione primaria, perché possa essere efficace, dovrebbe essere in grado di educare le generazioni future sull’importanza prospettica di adottare sani stili di vita (G. Ritchie et al., EPAD 2018).
Sebbene i fattori di rischio potenzialmente non modificabili (invecchiamento, sesso femminile, familiarità positiva e presenza dell’allele e4 per l’apolipoproteina E) pesino per il 60%, intervenendo precocemente sui fattori modificabili, che rappresentano il 40% della quota totale di rischio, si potrebbe ridurre notevolmente la probabilità di sviluppare una demenza (The Lancet commissions 2020).
Nonostante le indicazioni da parte degli organi sanitari mondiali più rappresentativi e i consigli da parte delle più importanti società scientifiche, come mai gli interventi di prevenzione faticano a decollare?
Perché negli investimenti economici destinati alla lotta alla demenza, si dedicano pochissime risorse alla promozione, alla divulgazione e all’attivazione di azioni concrete di prevenzione primaria?
Certamente uno degli ostacoli più complessi da superare è rappresentato dall’enorme, per certi versi incomprensibile, reticenza che gli enti competenti hanno nel promuovere e applicare interventi di prevenzione e questo purtroppo accade non solo in ambito sanitario.
Se campagne di prevenzione sono state svolte in modo rilevante e con discreto successo per molte patologie (cardiache, oncologiche, infettive, etc.), non possiamo affermare lo stesso per la demenza.
Per quale motivo non si è dato il giusto spazio alla prevenzione in questa malattia?
Perché siamo così tanto indietro nel campo della prevenzione rispetto ad altre patologie?
Una possibile risposta ci conduce alla seconda ragione per cui è così difficile fare prevenzione primaria e ha più a che fare con l’epistemologia medica, nel senso che in clinica la demenza è considerata una malattia geriatrica, una patologia neurologica che colpisce prevalentemente l’anziano.
Purtroppo questa impostazione gnoseologica, questa visione preconcetta della demenza, che potrebbe anche considerarsi una forma di ageismo, è uscita dall’alveo sanitario e si è radicata nell’immaginario collettivo.
Infatti, nel discorso comune, la semplicistica equazione anziano=demenza è terribilmente ancora in auge. Questa visione parziale, se non addirittura miope, con cui noi clinici abbiamo condotto il nostro lavoro di diagnosi e cura e i ricercatori il loro lavoro in laboratorio, ha inevitabilmente portato a concentrare le forze prevalentemente sulle fasi più avanzate della vita, orientando tutte le attività e le risorse in un arco temporale molto ristretto, circoscrivibile solo alle fasi più conclamate e avanzate di malattia, trascurando, de facto, che la demenza insorge decenni prima della sua manifestazione sintomatologica.
La malattia non inizia quando viene diagnosticata, ma ha origine molto tempo prima in modo subdolo, silente e asintomatico. Quando poniamo diagnosi di demenza ormai siamo già in una fase irreversibile e conclamata di malattia.
Noi di TopMemory® siamo profondamente convinti che invece sia altrettanto importante focalizzarsi anche sulle fasi pre-morbose della malattia lavorando sulla prevenzione primaria per la riduzione del rischio.
Crediamo sia imprescindibile concentrarsi sulla popolazione adulta e giovane cognitivamente integra, con:
E’ proprio in quest’ottica preventiva di lotta alla demenza che si inserisce la nostra attività di allenamento cognitivo con i corsi MemoFit®: straordinaria attività di prevenzione primaria in cui la stimolazione neurocognitiva incontra la neuroplasticità, generando quel magnifico processo sinergico protettivo in grado di donare vitalità al nostro cervello.
Le neuroscienze cognitive studiano i processi biologici e le connessioni neurali nel cervello che regolano la cognizione umana e i processi mentali. Si tratta di un campo di studi che può essere considerato sia una branca della psicologia sia una branca delle neuroscienze.
Per alcuni aspetti, tale campo di studi confina anche con alcune branche delle scienze cognitive, dell’informatica e della filosofia della mente.
Nonostante le neuroscienze cognitive siano una disciplina abbastanza giovane, sono rapidamente diventate una delle aree di ricerca scientifica più attive e più importanti per la comprensione dei processi mentali e del comportamento umano.
La crescente importanza delle neuroscienze cognitive è anche determinata dall’evolversi delle tecnologie e degli strumenti che consentono di “vedere” come lavora il cervello, sia quando svolgiamo semplici compiti percettivi, attentivi, mnemonici o motori, sia quando siamo impegnati in attività più complesse, come prendere decisioni, fare ragionamenti, ecc.
Inoltre, gli strumenti e le tecniche che consentono di “guardare” dentro il cervello permettono anche di capire quali circuiti neuronali regolano le emozioni, i sentimenti e gli stati affettivi.
Una delle più rilevanti scoperte scientifiche nel campo delle neuroscienze cognitive (chiariscono la correlazione tra differenze individuali cognitive e comportamentali e specifiche differenze nel funzionamento cerebrale), è senza dubbio la neuroplasticità.
Secondo le più recenti scoperte scientifiche il nostro cervello sarebbe in grado, se sollecitato adeguatamente e con costanza, di stimolare fattori neurotrofici che generano nuove cellule e connessioni (sinaptogenesi), aumentando così le reti neuronali.
Una costante attività di stimolazione cognitiva protratta nel tempo innesca l’aumento volumetrico dell’ippocampo, area cerebrale particolarmente importante perché sede delle cellule nervose preposte ai processi di memorizzazione (MJ. Valenzuela et al., 2008).
Allenare la memoria e migliorarne le prestazioni a seguito di training cognitivi specifici, sembra correlato con l’attivazione dei processi di neurogenesi a livello ippocampale (D. Antonenko et al., 2016; M. Fotuhi et al., 2016) e più in generale su tutto il cervello di persone a rischio di sviluppare una demenza di Alzheimer (S. Belleville et al., 2011). Questo processo neuroplastico sembrerebbe potersi attivare anche in età avanzata (A.N. Tartt et al., 2018).
Gli interventi di stimolazione cognitiva, attivando la crescita dei substrati neuronali, generano una sorta di scorta cognitiva che a sua volta produce una resilienza cognitiva in grado di contrastare il fisiologico declino cerebrale età-correlato (K. Ball et al., 2002; Willis et al., 2006; G. Smith et al., 2009; A. L. Gross et al., 2011 – 2012; Kawashima R. et al., 2013; A. Lampit et al., 2015; S. Makin et al., 2016).
Allenare con costanza e dedizione il cervello, grazie all’effetto neuroprotettivo prodotto, ridurrebbe la possibilità di sviluppare in futuro una malattia neurodegenerativa come la demenza (L. Clare et al., 2003; MJ. Valenzuela et al., 2006-2008; N. Gates & M. Valenzuela 2010; Belleville et al., 2011; Y. Stern 2012; Naqvi et al., 2013).
Una combinazione tra esercizio mentale ed esercizio fisico eseguito attraverso un protocollo specifico che prevede l’utilizzo di un video gioco (Exergame training), incrementerebbe il BDNF (brain-derived neurotrophic factor), meccanismo che starebbe alla base dei processi neuroplastici cerebrali (M. Monteblanco Cavalcante et al., 2022).
Gli effetti di questo processo di neurogenesi creano una sorta di riserva cognitiva che aumenterebbe l’efficienza del cervello, fenomeno osservabile a seguito del raggiungimento di significativi miglioramenti delle performance cognitive.
La creazione di questa riserva cognitiva contribuisce a prevenire la demenza (Y. Stern 2012; C. Sheung-Tak 2016).
Su questa straordinaria capacità delle nostre cellule nervose, poggiano i nostri interventi di prevenzione primaria cognitiva.
Tutti i nostri innovativi corsi MemoFit® rappresentano il mezzo con il quale concretamente stimoliamo i neuroni ad attivare il processo della neuroplasticità.
Sono ormai svariati gli studi scientifici che evidenziano quanto sia importante per ridurre la possibilità di sviluppare una forma di demenza, adottare sani stili di vita già dai primi anni di vita.
Gli studi portati a termine dalle più famose università del mondo evidenziano inequivocabilmente che le persone che hanno seguito comportamenti virtuosi nella loro vita hanno un rischio inferiore del 60 % di sviluppare una demenza.
Tra questi sani stili di vita ricordiamo l’attività fisica regolare, la stimolazione cognitiva, la dieta, la meditazione, il non fumare e bere alcolici e il mantenere buone relazioni sociali. Una combinazione virtuosa tra loro modulerebbe i fattori di crescita neuronale migliorando la salute cerebrale in età avanzata (C. Phillips 2017).
Gli interventi più efficaci in questo senso sembrerebbero proprio i programmi di attività multicomponenziale in cui si miscelano alternativamente stimoli fisici e stimoli cognitivi (P: Eggenberger et al., 2015; S. Chapman et al., 2017)
I fattori protettivi come gli stili di vita corretti, possono effettivamente influenzare la traiettoria dell’invecchiamento cerebrale e ridurre i rischi di sviluppare un declino cognitivo patologico anche per quei soggetti a rischio genetico.
La letteratura scientifica evidenzia che seguire una dieta sana aiuta a mantenere in salute il nostro cervello.
Un’alimentazione equilibrata come la dieta mediterranea povera di grassi saturi e ricca di vegetali, frutta, verdura e minerali protegge dalle malattie cerebrovascolari e migliora l’efficienza cognitiva (T. Psaltopoulou et al., 2013; E. Mazza et al., 2018; OMS 2019).
Per i suoi effetti antiossidanti ed antiinfiammatori una dieta ricca di sostanze vegetali contribuirebbe ad innescare i processi neurogenici ippocampali e la neuroplasticità proteggendo, così, il cervello da un precoce d’invecchiamento patologico (A.L. Cremonini et al., 2019).
Anche l’attività motoria a basso impatto svolgerebbe un ruolo determinante nel proteggere il cervello dai processi d’invecchiamento fisiologico e patologico.
Il movimento sia a livello osseo-articolare che muscolare produrrebbe una serie di sostanze come l’irisina (MV. Lourenco et al., 2019) che, passando la barriera ematoencefalica, concorrerebbero a migliorare l’efficienza del cervello favorendo i processi di neurogenesi (K. Erickson et al., 2010; A. Carvalho et al., 2014; G. Corbi et al., 2015; P. Gajewski et al., 2016; S. Lamb et al., 2018).
L’attività fisica oltre a migliorare l’efficienza cerebrale, la plasticità e le prestazioni cognitive nell’anziano, soprattutto se combinata con specifici esercizi di allenamento cognitivo (N.Y. Ann et al., 2015; F. Gheysen et al., 2018), rallenterebbe l’insorgenza dei sintomi cognitivi anche in persone ad alto rischio di sviluppare una demenza (M.Y.Cui et al., 2018).
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