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PSYCHOTHERAPY

Visita specialistica psicologica – Psicoterapia

Noi psicoterapeuti non siamo considerati proprio buoni d’animo o completamente disinteressati, eppure in qualche modo riusciamo ad alleviare le sofferenze che l’uomo reca a se stesso. Gli stiamo vicino, non ci allontaniamo anche se odiati, non cediamo alle lusinghe, ascoltiamo con dedizione assoluta e il nostro silenzio non è mai freddo.

Può arrivare una mattina nella nostra vita in cui, anche se splende il sole in cielo, ci sentiamo cadere le foglie dentro e, se questa sensazione si è già ripetuta nei giorni passati, allora significa che non riusciamo più ad affrontare le difficoltà e la sofferenza da soli.

Quando ci troviamo di fronte a queste sensazione di disagio e confidarci con un amico non è bastato, dobbiamo concederci l’opportunità di risolvere le nostre problematiche emotive insieme ad un professionista delle “afflizioni dell’anima”, come dicevano gli antichi, un professionista capace di accompagnarci nei meandri del nostro mondo interiore per aiutarci a risolvere il problema con pathos, ethos e logos.

Pathos, Ethos e Logos

Mi rifaccio ai tre pilastri fondamentali della retorica di Aristotele, pathos, ethos e logos, per descrivere sinteticamente le tre qualità che ogni buon psicoterapeuta dovrebbe possedere e per esemplificare, metaforicamente, le tre direzioni essenziale cui deve tendere una psicoterapia, non nel senso peggiore in cui sono considerate oggi, ovvero mere categorie persuasive, ma recuperandone l’antico e profondo significato.

Pathos, che significa “sofferenza ed esperienza”, nella retorica aristotelica, si traduceva nell’abilità dell’oratore di evocare emozioni. Emozioni e sentimenti rappresentano proprio l’oggetto privilegiato d’indagine della psicoterapia.

Una psicoterapia dovrebbe essere condotta sempre con pathos, con partecipazione affettiva e il terapeuta dovrebbe possedere la capacità di entrare in contatto emotivo, in empatia con la sofferenza espressa dal paziente. 

La seconda categoria, ethos, significa “carattere, comportamento” e proviene dalla parola greca ethikos, che significa “morale” e capacità di mostrare la propria personalità e qualità morali.

In psicoterapia questo concetto ha a che fare con la fiducia e l’alleanza terapeutica, ingredienti imprescindibile per la riuscita di una analisi.

Lo psicoterapeuta dovrebbe possedere una personalità equilibrata e virtuosa, manifestare affidabilità, trasparenza e correttezza per suscitare il giusto livello di credibilità e sicurezza.

E infine l’elemento attraverso cui la psicoterapia può compiersi: il logos che significa parola, discorso o ragione. La parola ovvero la comunicazione, è un elemento cruciale in psicoterapia per molteplici motivi.

La parola espressa in terapia ha un peso specifico enorme così come lo ha la narrazione del paziente.

Per tanto il terapeuta non solo deve padroneggiare bene l’arte oratoria per farsi capire, ma deve anche saper ascoltare e comprendere il significato recondito delle parole, ricordando che in psicoanalisi le parole del paziente sono la via regia per l’inconscio.

Scegliere lo specialista psicoterapeuta

Dopo la fase della consapevolezza di aver percepito il propio disagio psichico e deciso di rivolgersi ad un professionista, inizia la fase della ricerca dello specialista.

Una fase altrettanto delicata e foriera di dubbi e perplessità. A chi mi rivolgo? Al consulente spirituale? al medico di famiglia? oppure ad uno specialista che si occupa di malattie cerebrali come il neurologo? ad uno psichiatra? ad uno psicologo? o ad uno psicoterapeuta? E qual’è la differenza tra loro? E ancora, per come percepisco il mio stato emotivo, ritengo di aver bisogno di una cura farmacologica o sarebbe meglio capirlo insieme ad un professionista? Queste sono solo alcune delle domande che ci poniamo nel processo di scelta.

Non vorremmo rendere la questione ancor più complessa di quanto lo sia già, ma è innegabile che la scelta del professionista è un atto delicato da non sottovalutare come spesso accade.

Giunti a questo punto, ipotizzando di aver risolto i quesiti e di aver optato per una consultazione psicoterapica (secondo noi prima scelta per affrontare le problematiche di natura più squisitamente psichiche), ci troviamo di fronte all’annoso problema legato a come scegliere il terapeuta.

Orientarsi nella giungla delle offerte di aiuto psicologico o psicoterapico è effettivamente molto complicato, soprattutto per tre motivi fondamentali:

  1. essendo una giungla ricca di un brulicante sottobosco di venditori di fumo più che di professionisti della salute, dobbiamo porre attenzione alle trappole disseminate sul terreno e alle sirene del: “starai benissimo, senza alcuno sforzo, in poco tempo e pagando pochissimo”;
  2. essendoci più di cento forme di psicoterapia quale modello teorico e operativo può essere adatto a noi?;
  3. è meglio un uomo o una donna?.

I temi sono molteplici e tutti meritevoli di essere approfonditi, ma in questo spazio non possiamo soffermarci di più, anche se ci piacerebbe molto (vi diamo appuntamento per approfondimenti sul nostro blog).

Quello che ci sentiamo di dire in merito, per onestà d’informazione, è che, indipendentemente dalle impostazioni teoriche dei terapeuti, gli aspetti efficaci delle psicoterapie agiscono in modo simile (Weinberger et al., 1995; Luborsky et al., 2002).

Si verifica, cioè, quello che i ricercatori avevano chiamano “il verdetto di Dodo” (Luborsky et al., 1993).

In generale questo accade perché la persona che sceglie di intraprendere una psicoterapia, cerca, si una competenza specifica, ma soprattutto una relazione soddisfacente che le consenta di potersi affidare, di aprirsi liberamente, di risolvere i propri conflitti interiori e crescere come individuo, indipendentemente dall’orientamento teorico del terapeuta.

L’esito della terapia dipende più dalla differenza tra i terapeuti che dalla differente modalità d’approccio.

Se ci riflettiamo un poco su, possiamo facilmente comprenderne il razionale. In effetti, riferendoci come esempio alla psicoterapia psicoanalitica, nella stanza d’analisi si ritrovano due persone che fino a pochi secondi prima non si erano mai viste. Due perfetti sconosciuti che nel momento in cui s’incontrano, creano immediatamente un campo energetico bipersonale unico e irripetibile.

L’incontro tra due persone è l’incontro tra due mondi differenti, tra due personalità diverse, tra due caratteri dissimili, tra due modi di vivere magari opposti, etc. etc..

Questo tipo d’incontro sottostà alle leggi universali delle relazioni oggettuali. Può, pertanto, essere stimolante, gratificante e produttivo come deludente, frustante e improduttivo.

Vale la stessa regola non scritta che governa qualunque tipo di incontro tra esseri umani, perché, indipendentemente da tutto, non esiste una terapia per tutte le persone, ma la persona in terapia con un’altra persona.

Come avete facilmente compreso, l’argomento è tanto intrigante quanto vastissimo e più si approfondisce più si dilata a macchia d’olio.

Gli spunti di discussione sono innumerevoli.

Per approfondimenti vi diamo appuntamento sul nostro blog in cui parleremo di questo ed altri interessanti temi inerenti alla psicoterapia.

Cos'è la psicoterapia psicoanalitica

Vi sono molti tipi e mezzi di psicoterapia. Buoni sono tutti quelli che raggiungono lo scopo della guarigione.

La psicoterapia a orientamento psicoanalitico è una cura per la risoluzione delle problematiche emotive dell’adulto e del bambino, fondata sulla comunicazione che sopra ogni altra cosa garantisce e rispetta il principio di confidenzialità. J. Bleger (1967) definiva situazione psicoanalitica, l’insieme dei fenomeni analizzabili e interpretabili legati alla relazione terapeutica fra paziente e analista. Fenomeni che avvengono in uno specifico setting, elemento costante entro i cui confini si svolge il processo terapeutico.

Nell’incontro psicoanalitico siamo in presenza di due funzioni alfa, come le definiva Bion: il racconto del paziente e la rinarrazione del terapeuta, ovvero la ridefinizione della comunicazione da parte dell’analista.

Questa particolarità rende questo tipo dialogo terapeutico. Un dialogo tra due persone da non confondere assolutamente con la conversazione amichevole, ne con la visita dall’esperto che dispensa espliciti consigli.

Non è neppure un’interazione con un insegnante, un maestro o un consigliere spirituale. Non è, in definitiva, una comunicazione formale e codificata, bensi è una particolare forma di comunicazione all-round tra due menti che entrano in contatto. E’, ad un tempo, verbale e metaverbale, inconscia e preconscia, espressa e inespressa, razionale e irrazionale, profonda e di superficie, alfabetizzante e semantizzante (Ferro 1996).

Essendo una comunicazione bidirezionale, una comunicazione di questo livello può esistere solo in un setting fisico e mentale in cui agiscono due persone in una determinata posizione: una sdraiata sul lettino e l’altra seduta dietro.

In questa specifica forma relazionale, il terapeuta inevitabilmente è in una posizione privilegiata e non solo per la posizione fisica assunta all’interno del setting (riprenderemo più avanti l’interessante questione sull’uso o meno del lettino).

Perciò è determinante per l’analista ridurre questa asimmetria relazionale facendo conoscere da subito, perlomeno descrivendola a grandi linee, la tecnica utilizzata in terapia.

Alcune persone possono avere già una discreta conoscenza della psicoterapia psicoanalitica, ma molti ne sono completamente all’oscuro, e nel caso in cui avessero già avuto un esperienza psicodinamica, dobbiamo considerare che esistono anche differenze sostanziali tra un’impostazione e l’altra.

Noi, pertanto, riteniamo cruciale coinvolgere sin da subito il paziente in questo processo conoscitivo, cosicché possa essere compreso, criticato liberamente e poi eventualmente condiviso, il motivo per cui: non parliamo di noi stessi, poniamo domande sui sogni, analizziamo le reazioni del paziente nei nostri confronti, spingiamo ad esprimere i sentimenti, indaghiamo la sessualità anche quando è stato richiesto il trattamento per tutt’altro, etc. etc.

La madre di tutti i successi terapeutici risiede proprio in questa scintilla primordiale collaborativo-conoscitiva, da cui discenderà la cosiddetta alleanza terapeutica.

L’incipit del processo d’analisi deve caratterizzarsi per lealtà e trasparenza. In questo clima relazionale la persona in terapia può tranquillizzarsi perché dove c’è spontaneità, sincerità e chiarezza ci sarà anche affettività.

Inoltre, in questa fase, il terapeuta, senza reticenze e paure, dovrebbe affrontare insieme al paziente, anche i possibili motivi di rottura terapeutica.

Questa modalità prepara la persona al futuro processo autoesplorativo tipico della psicoanalisi contemporanea e, considerando che questo tipo di approccio è già di per se terapeutico, affrontare le rotture dell’alleanza terapeutica, in realtà rafforza la costruzione dell’allenza stessa (Safran, 1993; N. McWilliams 2006).

Per creare la giusta atmosfera terapeutica e avviare i processi autoesplorativi e riflessivi, la miglior posizione fisica è senza dubbio quella che vede il paziente sdraiato sul lettino e il terapeuta seduto alle sue spalle.

Aldilà delle critiche mosse sul suo utilizzo, noi per quanto possibile, prediligiamo questo assetto del setting analitico.

In questa posizione supina i pazienti possono rilassarsi e sperimentare una condizione esplorativa dei propri pensieri e dei propri stati emotivi completamente nuova ed efficace, mentre noi sentiamo di unirci mentalmente al paziente, disposizione mentale che Freud chiamava “attenzione fluttuante” e che Ogden (1997) ha ridefinito più modernamente “reverie”.

Perché scegliere una psicoterapia psicodinamica?

Ovviamente noi che abbiamo scelto questo orientamento psicoterapico lo riteniamo il più affascinante, l’unico trattamento che può legittimamente vantare l’appellativo di terapia del profondo.

Certamente riconosciamo si tratti, per diverse ragioni, di un percorso impegnativo, ma è anche l’unico che realmente va al cuore delle cose.

Noi che amiamo questo modello psicoterapico come un figlio ama i propri genitori, siamo certamente di parte, ma non per questo siamo assolutistici ed elitari. Anzi, non solo sorridiamo di fronte alle critiche aprioristiche dei detrattori che sostengono i trattamenti empirici e farmacologici, ma ci battiamo per evitare che azioni propagandistiche e dogmatiche interferiscano con la libera scelta delle persone di decidere quale trattamento intraprendere per la propria salute psichica.

A tal proposito ci sentiamo in dovere di sfatare un falso mito ovvero quello che ritiene la psicoanalisi priva di evidenze scientifiche della sua efficacia.

La psicoterapia a orientamento psicoanalitico in realtà, con la cosiddetta terza generazione di studi sugli esiti della cura, ha dimostrato ampiamente la sua efficacia.

Il primo studio che aprirebbe questa terza generazione includeva la valutazione delle diagnosi iniziali dei soggetti, il decorso, l’outcome e un follow-up a lungo termine.

I risultati possono essere riassunti come segue:

  • è possibile ottenere cambiamenti strutturali e intrapsichici stabili e significativi (per es., nel livello di insight) con una psicoanalisi, ma anche con terapie psicoanalitiche espressive e supportive;
  • (un approccio interpretativo ed espressivo favorisce l’elaborazione e la risoluzione dei conflitti non solo in una psicoanalisi e in una terapia espressiva, ma anche in trattamenti di tipo supportivo (RS. Wallerstein 1986).

Molto interessante per la sua solidità metodologica e la sua informatività su diversi temi di interesse clinico menzioniamo lo Stockholm Outcome of Psychotherapy and Psychoanalysis Project (STOPPP).

In questo studio, oltre ad evidenziarsi una riduzione sintomatologica, un miglioramento nell’adattamento sociale e nella coerenza del senso di sé, si riscontrava un  significativo incremento dell’effetto terapico anche dopo il termine del trattamento, e ciò si registrava maggiormente nei pazienti in psicoanalisi che nei pazienti in altre psicoterapie i cui risultati rimanevano sostanzialmente stabili (R. Sandell et al., 2000).

Risultato riscontrato anche in altro studio recente l’Heidelberg Berlin Study, in cui veniva confermato che, i benefici significativamente maggiori nei pazienti in psicoanalisi rispetto a quelli in una terapia dinamica a minor frequenza, al follow-up venivano mantenuti se non incrementati, segno che il cambiamento strutturale e intrapsichico conseguito al termine della terapia risulta il miglior predittore di una valutazione retrospettiva dell’outcome positiva.

Dopo tre anni, tuttavia, l’unica variabile che sembra correlare significativamente con la valutazione dell’outcome è quella relativa al cambiamento strutturale del paziente, confermando l’assunto psicoanalitico che la terapia porta a cambiamenti profondi a livello dell’organizzazione di personalità del paziente, che a loro volta includono anche una riduzione sintomatologica.

Inoltre poiché questi processi di cambiamento spesso continuano ad agire nel tempo possono non essere immediatamente riconoscibili dal soggetto al termine del trattamento (T. Grande et al., 2009).

Tra l’altro, in tutti gli studi di terza generazione, emergeva che la maggior parte dei pazienti esaminati, presentava un livello di compromissione maggiore rispetto a quelle condizioni per cui la psicoanalisi è generalmente considerata il trattamento d’elezione (F. Gazzillo et al., 2012).    

Siamo altresì consapevoli che non tutte le persone possono essere predisposte ad affrontare  o trarre beneficio da una psicoterapia psicodinamica.

Benchè sono stati fatti molti studi sul tema dell’analizzabilità e della trattabilità (Bachrach, Leaff, 1978; Erle, Goldberg, 1979; Paolino 1981; Ehrenberg, 1992; Roth, Fonagy, 1996; Doidge et al., 2002), non possiamo prevedere a priori quale persona sia più adatta alla psicoterapia psicoanalitica.

L’alternativa che il nostro gruppo propone e privilegia, è quella di creare in seduta un modello che prescinda da queste teorizzazioni. Cioè, avvalersi di un approccio più disincantato, come se si dovesse dare un nome e un senso per la prima volta a qualcosa di sconosciuto, un approccio “senza memoria e desiderio”  (Bion 1962, 1970).

Anche perché variabili incontrollabili attribuibili a fattori imprevedibili possono presentarsi in qualunque momento e in qualunque fase della terapia.

Questo per dire che esistono valide alternative psicoterapiche di cui riconosciamo, anche se non ne condividiamo l’impostazione teorica di riferimento, l’intrinseca capacità di soddisfare le esigenze del cliente.

Non tutte le persone sono intenzionate a mettersi in gioco personalmente ai livelli richiesti dalla psicoterapia psicoanalitica, non tutte le persone sono predisposte ad un lavoro introspettivo e riflessivo che si concentra in primis sulla sfera emotiva. In questo senso non sempre la resistenza al trattamento è correlata alla mancanza di collaborazione.

La resistenza è un concetto intrapsichico più che interpersonale, ha più a che fare con il concetto di resistenza fisica che con l’irriducibile ostinazione. Perciò, se una persona all’inizio del lavoro manifesta avversione nei confronti dell’analisi, potrebbe essere il segnale che forse non è incline al lavoro analitico e magari predilige un altro approccio terapeutico con cui si troverebbe più a suo agio, piuttosto che pensare pervicacemente stia resistendo alla terapia.

Il poeta Rilke non voleva andare in analisi, non perché manifestasse una qualche forma di resistenza, ma perché temeva che la psicoterapia avrebbe si affrontato e sconfitto i suoi demoni, ma anche, contemporaneamente, inaridito la sua vena artistica

Bene, grazie per la cortese attenzione.

Suggeriamo al lettore interessato che desideri approfondire questi ed altri argomenti inerenti la psicoterapia psicodinamica, di partecipare alle conversazioni aperte sul tema presenti nel nostro blog.

Sperando di aver stimolato proficue riflessioni, porgiamo i nostri più cordiali saluti augurandoci di poterci conoscere personalmente.

Puoi contattarci tramite i riferimenti del sito sia chiamandoci o scrivendoci.
Potrai prenotare un primo colloquio conoscitivo quando vuoi, senza impegno e gratuitamente.

La nostra offerta

A questo punto crediamo sia importante dare al lettore interessato tutte le informazioni possibili sulla proposta che il centro TopMemory® offre di psicoterapia e non solo. Cercheremo di fornirle in modo chiaro e il più esaustivo possibile.

Siamo tutti psicoterapeuti specializzati iscritti all’albo degli psicoterapeuti della regione Liguria e abilitati ad esercitare la professione.

Il nostro orientamento è psicodinamico e psicoanalitico in un’accezione contemporanea.

Il Dr. Massimo Veneziano direttore del centro TopMemory® oltre ad essere un esperto psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico che lavora in campo clinico da oltre 20 anni, ricopre anche un ruolo dirigenziale in ambito pubblico essendo responsabile del servizio di psicologia clinica e psicoterapia della ASL della città in cui vive.

  • colloqui clinici conoscitivi (consultazione). Sono previsti non meno di 3-4 incontri di cui il primo è gratuito;
  • servizio di psicodiagnostica. Per chi ha bisogno, per qualunque motivo, di fare un esame psicodiagnostico corredato di referto. Questo tipo di attività viene svolta con l’ausilio dei più conosciuti e moderni reattivi psicodinamici, test di personalità, test psicologici, test psicoattitudinali, test d’intelligenza, test psicologici e proiettivi per bambini;
  • psicoterapia a orientamento psicoanalitico individuale e di gruppo;
  • servizio di supervisione (riservato agli psicoterapeuti in formazione);
  • sostegno psicologico.

Presso la sede del centro TopMemory® (sezione psicoterapia) di Genova.

Neuropsicoanalisi

Quando la psicoanalisi incontra le neuroscienze.

Alla luce dei suoi studi, della sua competenza ed esperienza in perenne equilibrio tra neuroscienza e psicoanalisi, da molti anni il Dr. Massimo Veneziano è attratto dall’affascinate connubio tra le due discipline.

Con il termine neuropsicoanalisi si fa riferimento ad un paradigma di ricerca che si situa tra l’ambito delle neuroscienze e quello della psicoanalisi, con l’obiettivo di collegare i concetti psicoanalitici ai modelli teorici delle neuroscienze e favorire la creazione di un modello omnicomprensivo in grado di integrare la psiche, la mente e il cervello.

Possiamo considerare la neuropsicoanalisi come una sorta di evoluzione delle folgoranti intuizioni e idee freudiane, e del suo tentativo di delineare una psicologia scientifica che potesse dar vita ad un nuovo e ambizioso modello della mente umana (E. R. Kandel 2007).

Ricordiamo che Sigmund Freud, il fondatore della psicoanalisi, era un neurologo interessato allo studio delle cellule nervose e in particolare alla localizzazione di lesioni annesse ai disturbi del linguaggio come l’afasia.

L’interesse neuroscientifico degli esordi professionali è stato successivamente sostituito da una crescente curiosità e fascinazione per le componenti psicodinamiche dell’attività mentale come l’Io, i sogni e soprattutto l’inconscio.

Vi è però traccia di una sua ricerca in cui risulta evidente il suo tentativo di far luce su come i meccanismi psicodinamici potessero, in qualche modo, essere correlati ai meccanismi neuronali del nostro cervello.

Questo è il famoso scritto intitolato “Project for a Scientific Psychology”, del 1895. Non riuscendo in tale intento, Freud considerò il tentativo un mero fallimento e di conseguenza non fece pubblicare il manoscritto durante la sua vita.

Col passare del tempo, però, questo scritto ha iniziato a circolare in ambito scientifico suscitando notevole interesse e alimentando proficue discussioni circa la possibilità che le intuizioni della psicoanalisi potessero essere confermate dalle neuroscienze.

Infatti il famoso scritto è considerato il primordiale e pioneristico studio scientifico sulla correlazione tra istanze psicodinamiche e correlati neuroanatomici, un collegamento ante litteram, una testa di ponte tra le due discipline, che sancisce la nascita della neuropsicoanalisi.

Il focus predominante della neuropsicoanalisi si concentra sulla correlazione tra i concetti psicodinamici come i sogni, l’inconscio, il Sé, l’Io, la memoria emotiva, i processi primari e secondari, i meccanismi di difesa etc., e i sottostanti meccanismi neurali e la loro localizzazione in particolare regioni cerebrali, il loro correlato neuroanatomico, che regolano specifiche attività psicologiche quali le funzioni affettive e cognitive. 

Quest’area di studio è molto affascinate perché continuamente arricchita dalle continue scoperte che possono farsi grazie alle nuove tecnologie applicate allo studio del funzionamento cerebrale. Tecnologie che non esistevano 150 anni fà, motivo per cui Freud dovette abbandonare il tentativo di collegare l’attività inconscia psicologica all’attività neuronale di qualche specifica area cerebrale.

Ovviamente non tutti gli psicoanalisti sono favorevoli ad aprire un dialogo scientifico con le neuroscienze (Y. Yovell et al., 2015), non ritenendo la neuropsicoanalisi l’evoluzione connaturata della psicoanalisi e soprattutto non considerandola vitale per il su futuro anzi viceversa temono possa influenzare fino a snaturare i principi alla base della psicoanalisi stessa (R. B. Blass et al., 2008).

La neuropsicoanalisi attuale si basa fortemente sui recenti sviluppi nel campo delle neuroscienze cognitive, affettive e sociali.

Si cerca quindi di individuare le regioni e i circuiti neurali a partire da conoscenze già acquisite. Per esempio, le funzioni cognitive come la memoria di lavoro e l’attenzione, sono associate con un’attività neurale in specifiche regioni corticali come la corteccia prefrontale laterale e la corteccia parietale.

Sulla base di tali evidenze la neuropsicoanalisi cerca di collegare specifici meccanismi psicodinamici all’attività neuronale in particolari regioni del cervello.

Altri neuroscienziati, invece, perseguono un approccio sull’efficacia, basandosi sulla ricerca delle funzioni affettive intrinseche e i loro corrispondenti substrati neurali corticali (J. Panksepp and M. Solms 2012).
Uno dei primi e più importanti autori di questo approccio è Mark Solms (2015).

Egli ha infatti osservato particolari cambiamenti psicodinamici nei suoi pazienti, sottoposti ad intervento neurochirurgico per specifiche lesioni cerebrali. Basandosi sulle osservazioni neurochirurgiche di questi pazienti, ha sostenuto, per esempio, che la corteccia prefrontale ventromediale possa essere cruciale nella strutturazione dell’Io, mentre la corteccia parietale può essere centrale nella strutturazione del proprio corpo come primo Oggetto-Sé.

Le sue deduzioni che partono dal funzionamento patologico del cervello per risalire al funzionamento sano, gli hanno permesso di collegare i meccanismi psicodinamici a regioni specifiche del cervello.

Recentemente gli studi basati sulla localizzazione, si sono concentrati sul cervello sano per cercare di delineare al meglio la correlazione tra una specifica attività psichica e la sottostante area neurale attivata.

Per comprendere al meglio la neuropsicoanalisi è bene partire da come Freud si approcciò alle funzioni psicologiche e cosa, soprattutto, egli osservò per formulare il concetto di apparato psichico.

Fondamentalmente Freud ascoltava i suoi pazienti e indagava quei contenuti mentali che successivamente venivano associati a specifiche funzioni psicologiche.

Le funzioni psicologiche a loro volta assunsero poi le caratteristiche di specifici meccanismi psicodinamici. Ad esempio, i sogni mostravano a Freud i contenuti mentali del proprio paziente ed egli associava a tali contenuti una valenza di tipo sessuale che altrimenti, al di fuori del sogno, non sarebbe emersa.

Da questa osservazione egli dedusse e delineò uno specifico meccanismo psicologico, la rimozione, che aveva il compito di reprimere i contenuti sessuali durante il giorno per farli poi emergere nei sogni durante la notte.

Freud, a partire dall’osservazione di contenuti mentali, come per esempio il desiderio sessuale, attribuì loro un significato specifico, nel senso che quel contenuto esprimeva qualcosa di specifico circa la persona stessa.

Egli inferì dal contenuto mentale e dalla sua rilevanza per l’individuo, una funzione psicologica specifica, ossia la repressione, presupponendo che il contenuto mentale e il suo significato specifico, fossero possibili grazie all’esistenza appunto della repressione.

A differenza di Freud, le neuroscienze sociali, cognitive e affettive, non iniziano le loro indagini partendo da contenuti individuali e dagli indicatori soggettivi di quei specifici contenuti, bensì iniziano con l’analisi di comportamenti oggettivi, come ad esempio l’interazione sociale, la cognizione, o l’emozione.

Nonostante tale differenza metodologica di partenza, l’inferenza a funzioni psicologiche è praticamente la stessa.

Nello stesso modo in cui le neuroscienze deducono funzioni psicologiche specifiche in virtù del comportamento osservato, Freud dedusse le funzioni psicologiche a partire dai contenuti mentali che osservava. Si può quindi parlare in entrambi i casi di un approccio basato sulle funzioni.

Molte delle funzioni sociali, cognitive e affettive indagate dalle neuroscienze sono legate alle funzioni psicologiche che Freud descrisse. Per esempio, la funzione cognitiva della memoria, soprattutto quella autobiografica, può essere strettamente correlata alla funzione psicologica della rimozione di Freud.

Ci si chiede, quindi, se la convergenza di entrambi gli approcci basati sulla funzione possa fornire una piattaforma comune per fare il secondo passo, quello riguardante il cervello, ovvero se le funzioni sociali, cognitive e affettive possono essere localizzate in regioni specifiche del cervello.

L’approccio basato sulla localizzazione deve quindi essere visto come la naturale estensione delle funzioni psicologiche di Freud al cervello.

Identificare i correlati neurali di specifici meccanismi psicodinamici potrebbe risultare utile nella pratica della psicoterapia così come per il trattamento di diversi disturbi psichiatrici.

La neuropsicoanalisi riconosce le profonde radici evolutive della mente umana e dei disturbi emotivi (E. R. Kandel 2007), allo scopo di favorire una comprensione dei processi primari dei meccanismi affettivi cerebrali.

La prospettiva psicoanalitica sul funzionamento mentale può guidare la ricerca neuroscientifica per una maggiore comprensione dei concetti psicodinamici di base, come l’Io, i meccanismi di difesa, il funzionamento del sogno, la proiezione degli stati mentali; così come ampliare la conoscenza nel campo della memoria, del trauma, dell’attaccamento, dell’empatia e del Sé. 

Teoricamente, la psicoanalisi ha anticipato l’approccio neuroscientifico postulando l’esistenza di sistemi gerarchici comprendenti complesse funzioni mentali risultanti dall’interazione tra regioni cerebrali in costante interconnessione.

Il neuroimaging funzionale fornisce una strada promettente per lo studio di questi network funzionali (D.E. Linden et al., 2006). A tal proposito, sono stati condotti numerosi studi neuropsicoanalitici al fine di promuovere il dialogo tra la psicoanalisi e le neuroscienze e per indagare la metapsicologia psicoanalitica con l’obiettivo di migliorare le teorie neuroscientifiche.

La maggior parte dei lavori scientifici in questo campo si è focalizzata su tre concetti in particolare: il “”, le “funzioni dell’Io” e “l’inconscio”. Questa scelta della ricerca neuroscientifica è particolarmente rilevante per la comprensione per esempio della schizofrenia.

Gli studi di neuroimaging hanno da sempre esplorato la connettività cerebrale.

Esistono tre tipi di connettività:

  • connettività anatomica, definita come un pattern di connessioni anatomiche tra popolazioni neuronali o tra regioni cerebrali;
  • connettività funzionale, definita come un pattern di correlazioni statistiche tra aree cerebrali attivate distintamente;
  • connettività efficace, definita da interazioni causali tra specifici gruppi di neuroni.

La relazione tra queste differenti tipologie di connettività è di grande interesse e importanza per gli esperimenti neuroscientifici, in quanto potrebbe consentire la comprensione di complessi fenomeni mentali come la coscienza, l’influenza di contesti differenti sull’attribuzione di significati, la rappresentazione di sé e gli altri e così via.

Una recenti review (R. J. Murray et al., 2014) ha evidenziato che pattern di connettività differenti sono coinvolti nella rappresentazione di sé e degli altri: modelli meta-analitici di connettività mostrano un’attivazione selettiva del cingolato anteriore durante compiti auto-correlati (self-related) e un’attivazione selettiva del cingolato posteriore e precuneo durante compiti altri-correlati (Others-related).

Questa recente meta analisi ha messo in luce una connettività condivisa, durante lo svolgimento di tali compiti, tra la corteccia prefrontale ventromediale e la corteccia mediale orbitofrontale, fornendo così un’evidenza neuroscientifica della relazione intricata tra rappresentazioni di sé e degli altri e substrati neuroanatomici.

Questi risultati possono quindi fornire nuovi input di indagine per disordini quali l’autismo, la schizofrenia, il disturbo di personalità borderline, in cui le rappresentazioni di sé e degli altri sono distrutte o disfunzionali.

È importante sottolineare che la ristrutturazione della capacità di rappresentare il proprio Sé in maniera distinta dagli altri è un aspetto particolarmente centrale durante le interazioni di transfert-controtransfert, in particolare del modello di “psicoterapia basata sul transfert” di Otto Kernberg (O. F. Kernberg et al., 2008).

Gli studi futuri dovrebbero quindi valutare se le interazioni specifiche tra le rappresentazioni di Sé e degli altri sono associate con specifici pattern di connettività cerebrale, e se i cambiamenti in queste rappresentazioni, come rilevabili nelle dinamiche di transfert, apportano modifiche nella connettività cerebrale.

Negli ulti anni, le neuroscienze hanno concentrato la loro attenzione sullo studio del sé, suggerendo l’esistenza di un “proto-Sè” nei domini motori e sensori. Un “minimal self” o un “Sé mentale”, un “sé autobiografico” e un “sé narrativo” sono stati successivamente descritti (A. Damasio 2003; J. Panksepp, and G. Northoff 2009).

Nonostante le differenze nelle definizioni, è possibile identificare “processi correlati al Sé” che comprendono stimoli che sono esperiti come fortemente legati alla propria persona.

È molto importante considerare che il processo di relazione di stimoli auto-correlati non può essere considerato un fenomeno isolato, ma piuttosto essere inquadrato come un processo complesso che dipende dal contesto ambientale. Le strutture corticali mediane (Cortical Midline Structures, CMS) sono aree cerebrali correlate alle esperienze auto-riferite.

Tuttavia, specifiche caratteristiche del Sé sono anche legate ad altri regioni cerebrali (ad esempio il senso di agency all’insula posteriore e corteccia parietale inferiore destra, il senso di proprietà di Sé alla corteccia parietale destra e corteccia prefrontale ventromediale). Pertanto, il Sé risulta dall’integrazione di aree differenti che necessariamente implicano la connettività neurale.

Northoff (2011) ha suggerito che le Strutture corticali mediane potrebbero rappresentare i correlati neurali del “core self”, definito da Damasio come l’interazione continua tra stimoli intero-esterocettivi che consentono una percezione del Sé come unità.

Queste strutture sono attivate in condizioni di stato di riposo e disattivate durante compiti cognitivi. Tale situazione fisiologica è legata alla condizioni psicologica in cui il “core-self” viene sostituito e mascherato dall’attività cognitiva, con un’esperienza personale di “Sé costante” che rappresenta uno stato di base permanente per le altre attività psicologiche.

Seguendo la teoria di Northoff, la ricerca neuroscientifica potrebbe andare oltre gli approcci basati sulla funzione e localizzazione, effettuando così un passaggio dai “correlati neurali della psicodinamica” (Neural Correlates of Psychodynamics) alla “predisposizione neurale della psicodinamica” (Neural Predisposition of Psychodynamics), che si riferisce alle condizioni neurali dei contenuti mentali.

La “predisposizione neurale della psicodinamica”, in termini di funzioni cerebrali, può riferirsi all’attività in stato di riposo e alla sua “struttura spazio-temporale”, che è il risultato delle due principali caratteristiche dello stato di riposo, ossia le fluttuazioni a bassa frequenza e i pattern di connettività funzionale.

Il concetto “virtuale” di “struttura spazio-temporale” può essere paragonato all’approccio freudiano di “struttura psicologica” dell’apparato psichico, in quanto entrambi legati ad un processo e ad un organizzazione, che richiamano un’entità fisica o psicologica.

Da questo punto di vista, l’attività in stato di riposo, insieme alle caratteristiche spazio-temporali che includono la connettività funzionale tra le regioni del cervello, potrebbero rappresentare un modello associato con il pensiero freudiano sulle funzioni dell’Io e dei sogni.

Partendo da tali considerazioni, negli studi sulla schizofrenia, la relazione tra il Sé e gli altri è particolarmente indagata. Recentemente, la ricerca sulla schizofrenia si è focalizzata sulle anormalità del Sé, denominati disturbi dell’Io, e i risultati hanno suggerito che esperienze alterate del Sé possono risultare in un’anormale relazione con gli altri.

Connettività neurali anomale sono state proposte come caratteristiche di base nella fisiopatologia della schizofrenia; ricerche di neuroimaging suggeriscono anomalie funzionali e strutturali nelle connessioni neurali dei pazienti schizofrenici.

Tuttavia, il collegamento tra la connettività neurale e la disfunzione sociale non è ancora stata compresa. Attivazioni anomale nell’insula posteriore e riduzione dell’attivazione nella corteccia premotoria ventrale, con una correlazione negativa con i disturbi dell’esperienza di Sé e una percezione sociale disfunzionale, si sono riscontrati in soggetti affetti da schizofrenia con un concomitante danneggiamento dei processi di connettività neurale (Sjoerd J. H. Ebisch et al., 2015).

Per cercare di comprendere meglio tale correlazione si è cercato di perfezionare le indagini di neuroimaging con l’aggiunta di compiti di percezione sociale nella fase prodromica dei disturbi psicotico e di personalità, con l’obiettivo di mettere in luce il funzionamento cerebrale e i suoi correlati neurali con le abilità di distinguere tra sé e gli altri (Sjoerd J. H. Ebisch et al., 2018).

In aggiunta a questo, le riduzioni di attività nelle aree cerebrali individuate, consentono un’ulteriore osservazione circa il fatto che tali regioni svolgono un ruolo centrale nel mediare l’esperienza del Sé, suggerendo uno sbilanciamento nel processamento delle informazioni interne ed esterne con un’anormale integrazione di queste.

Il neuroimaging funzionale ha evidenziato che la connettività funzionale durante lo stato di riposo nelle strutture corticali mediane e nell’area fronto-parietale mesiale (Default Mode Network), rete neurale che si attiva durante le ore di riposo, tendono a incrementare nella psicosi, mentre si ridurrebbe l’attività nell’area fronto-parietale esterna (Control Executive Network).

Altre indagini attraverso la PET (positron emission tomography) evidenziano una disregolazione del sistema cerebrale Default Mode Network in particolari condizioni mentali (M. E. Raichle 2015) ed anche del Control Executive Network nei disturbi mentali come la depressione maggiore (Q. Zhao et al., 2019).

Il forte incremento della connettività funzionale durante gli stati di riposo all’interno delle aree sopracitate può essere visto come il correlato funzionale di una maggiore attenzione sui contenuti mentali interni che sono maggiormente legati al Sé.

Viceversa, una forte connettività in stato di riposo nell’area fronto-parietale esterna e nelle regioni laterali, è legata ad un aumento dei contenuti mentali esterni e della consapevolezza (S. Ionta et al., 2014).

Il funzionamento opposto tra l’area fronto-parietale mesiale e l’area fronto-parietale esterna potrebbe rappresentare il correlato neurale dei contenuti mentali interni ed esterni.

La confusione tra contenuti mentali interni ed esterni che è tipico della sintomatologia schizofrenica, come l’inserzione del pensiero, il ritiro del pensiero, sintomi passivi e allucinazioni uditive, potrebbe pertanto essere correlato ad uno squilibrio tra le due reti.

In questa prospettiva, la teoria psicoanalitica può fornire una base teorica utile agli studi neuroscientifici sul Sé e le esperienze soggettive.

I correlati strutturali e funzionali per le nozioni psicodinamiche dei processi inconsci (ad esempio, processi e contenuti mentali che sono difensivamente rimossi come risultato di situazioni conflittuali interne) non sono ancora stati identificati.

Negli ultimi anni, si è assistito ad un crescente interesse verso i processi inconsci e gli studi neuroscientifici hanno valutato la percezione subliminale, cognizione implicita, processi emotivi e percezione interocettiva attraverso metodi empirici.

La teoria psicoanalitica sostiene che siamo in parte inconsapevoli di ciò che sentiamo realmente. Studi su soggetti sani e cerebrolesi hanno dimostrato che, anche quando uno stimolo non viene percepito coscientemente, si innesca una modulazione dell’attività neurale che genera una risposta emotiva.

Alcuni studi, a tal proposito, hanno evidenziato l’esistenza di una “volontà inconscia”, con la quale perseveriamo un obiettivo a prescindere dalla consapevolezza cosciente (R. Custers and H Aarts 2010).

La descrizione che fece Freud del funzionamento e sviluppo dell’Io, alla luce della distinzione tra processi primari e secondari (rispettivamente, il funzionamento dell’io e dell’inconscio), è stata associata al corrispondente funzionamento dell’area fronto-parietale mesiale e alle interazioni che avvengono con altre reti cerebrali (R. L. Carhart-Harris  and K. J. Friston 2010).

Freud descrisse i processi secondari come “limitati” e “inibiti”, mentre quelli primari come “liberi” e “motili”. In pratica descrisse intuitivamente quello che noi adesso possiamo apprezzare osservando il funzionamento cerebrale. Infatti la connettività funzionale dell’area fronto-parietale mesiale appare differente nei bambini rispetto agli adulti, e risulta alterata in diversi disturbi cerebrali.

È possibile pertanto che, una perdita del controllo top-down sull’attività limbica nei sistemi gerarchicamente inferiori, rispecchia la perdita di controllo dell’Io sul processo primario.

Freud riteneva, infatti, che lo stato di veglia cosciente dipendesse dall’esistenza di un equilibrio tra le forze pressanti dei processi primari dell’Es e le forze contrarie dei processi secondari dell’Io. Questa descrizione è in linea con gli attuali modelli di cognizione basati sull’inferenza gerarchica di Bayes e sulla libera energia, dove le connessioni arretrate dalle aree corticali superiori lavorano per ridurre l’energia libera di zone corticali inferiori.

Da un punto di vista clinico, questo approccio consente nuovi spunti per la ricerca sulla patogenesi delle malattie mentali.

Una connettività funzionale alterata tra la zona corticale e limbica dell’area frontale-parietale mesiale può predire sintomi inerenti i disturbi dell’Io o dei processi primari nella schizofrenia, in particolar modo nella fase prodromica in cui questi sintomi sono prevalenti.

La letteratura scientifica suggerisce che anormalità nelle interazioni delle reti cerebrali giochino un ruolo vitale nei disturbi psichiatrici, e danni in specifiche aree di connettività funzionale possono riscontrarsi in diverse forme psicopatologiche.

Studi sulla connettività cerebrale nelle psicosi e nei disturbi depressivi hanno fornito una maggiore conoscenza su quanto alterazioni complesse nel funzionamento cerebrale e nelle reti interattive neurali sottendono a tali disturbi.

Mentre i modelli strutturali del funzionamento della mente appaiono insufficienti, la teoria psicoanalitica ha enunciato un modello organizzativo della mente più appropriato, che è maggiormente in linea con i risultati neuroscientifici.

Molte correlazioni tra neuroscienze e teorie psicoanalitiche sono state validate, e il progresso effettuato nell’identificare i correlati neurali del Sé nei differenti disturbi psichiatrici, rispetta e richiama le concettualizzazioni psicoanalitiche.

La psicoanalisi ha anticipato l’approccio neuroscientifico postulando l’esistenza di sistemi gerarchici comprendenti complesse funzioni mentali risultanti dall’interazione tra regioni cerebrali interconnesse. La “struttura psicologica” freudiana appare quindi consistente con l’approccio neuroscientifico basato sulla connettività cerebrale.

Le Strutture corticali mediane e le loro connessioni (insula posteriore destra, corteccia parietale inferiore destra, corteccia prefrontale ventromediale) possono rappresentare i correlati neurali del “core self”, definito come l’interazione continua tra stimoli intra-esterocettivi, che consentono una percezione del Sé in modo unitario. Tali aree sono attivate in condizioni di stato di riposo e disattivate durante compiti cognitivi.

Il funzionamento dell’Io corrisponde all’attivazione dell’area fronto-parietale mesiale e dagli scambi reciproci con altri network cerebrali.

Un’alterata connettività funzionale tra la rete corticale e limbica dell’area fronto-parietale mesiale può predire i sintomi dei disturbi dell’io, come alterazioni dei processi primari di pensiero nelle psicosi o l’attribuzione di emozioni negative a se stessi nei disturbi depressivi.

Queste evidenze suggeriscono che la ricerca della connettività cerebrale supporta la convergenza tra i risultati neuroscientifici e la psicoanalisi.

Una maggiore e approfondita comprensione delle connessioni di ogni network, e dell’interazioni tra di essi, potrebbe favorire lo sviluppo di una teoria completa della rappresentazione del Sé nel cervello.

Collegare i risultati neuroscientifici ai modelli teorici psicoanalitici può determinare un nuovo paradigma sperimentale e consentire indagini sui cambiamenti funzionali nel cervello successivi alla psicoterapia e quindi migliorare così i trattamenti.

Ovviamente c’è ancora molto da indagare per comprendere appieno il funzionamento mentale sia in condizioni fisiologiche che patologiche.

La sfida che attende la neuropsicoanalisi per progredire ulteriormente nella comprensione dei processi cerebrali dinamici sottostanti il funzionamento mentale, è quella di riuscire a coniugare gli strumenti tecnologici a disposizione delle neuroscienze quali elettroencefalomiografia, risonanza magnetica funzionale e tecniche di neuroimaging, con la clinica psicoterapica e a farle convivere con le nuove tecnologie informatiche della robotica e dell’intelligenza artificiale, in modo da fornire paradigmi sperimentali appropriati e adatti alla complessità della mente umana sempre nel rispetto del libero arbitrio.

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