Pur essendo datata, una definizione di demenza molto chiara e sintetica è quella fornita dal comitato della Royal College di Londra:
La demenza consiste nella compromissione globale delle funzioni corticali (nervose) superiori, ivi compresa la memoria, la capacità di far fronte alle richieste del quotidiano e di svolgere le prestazioni percettive e motorie già acquisite in precedenza, di mantenere un comportamento sociale adeguato alle circostanze e di controllare le proprie reazioni emotive, tutto ciò in assenza di compromissione dello stato di vigilanza. La condizione è spesso irreversibile e progressiva.
(Committee Royal College of Physicians and Geriatrics of London. Lancet 1972)
La demenza, infatti, è una malattia, o meglio, una sindrome, cioè un insieme di sintomi, che si manifesta con una progressiva alterazione dell’asse corpo-cervello su 3 dimensioni cliniche: quella cognitiva, quella psico-comportamentale e quella funzionale-motoria.
Si caratterizza per la graduale perdita delle capacità cognitive come la memoria, il ragionamento, l’attenzione, il linguaggio e la capacità di orientarsi; per la subdola modificazione della personalità e del comportamento, per la progressiva riduzione delle abilità strumentale della vita quotidiana e per la graduale perdita della funzionalità motoria, ovvero la capacità di svolgere compiti motori semplici e complessi.
Si contano oltre 100 forme di demenza, alcune reversibili altre irreversibili. Tra le demenze irreversibili più frequenti troviamo:
Contrariamente a quanto si possa immaginare le demenze non colpiscono solo le persone adulte ma anche i bambini (demenze infantili). Queste malattie neurodegenerative sono molto rare e correlate alla presenza di una mutazione ereditaria a livello di alcuni geni fondamentali. Fra le varie demenze infantili conosciute, le più note sono:
Oltre a queste forme di demenza irreversibili, ne esistono altre trattabili e potenzialmente reversibili. Spesso sono secondarie ad altre patologie o specifiche condizioni cliniche in grado di alterare il funzionamento cognitivo.
Tra queste forme di declino cognitivo reversibile ricordiamo: la depressione, i disturbi endocrini e metabolici (disfunzione della tiroide e distiroidismi; malattie dell’asse ipofisi-surrene; encefalopatia porto-sistemica in corso di epatopatia; insufficienza renale cronica), l’intossicazione da sostanze tossiche (alcol, farmaci, metalli pesanti), i processi espansivi intracranici (neoplasie, ematomi o ascessi cerebrali), l’idrocefalo normoteso, l’ematoma subdurale, le infezioni, alcune deficienze vitaminiche e stati carenziali (tiamina; vitamina B12; ac. folico), la malnutrizione e la miscellanea (traumi cranici; sindromi paraneoplastiche).
Se diagnosticate tempestivamente e trattate efficacemente, permettono il ristabilirsi dello stato cognitivo premorboso.
E’ indispensabile, pertanto, che le famiglie siano attente a non sottovalutare i segnali d’allarme manifestati dal proprio caro in modo da riportarli prontamente al medico di medicina generale (MMG), che a sua volta potrà valutarli e decidere di inviare il paziente presso un centro specialistico per un più accurato approfondimento diagnostico.
La demenza è una malattia del SNC tra le più diffuse al mondo che, a causa della sua costante drammatica crescita, rappresenta un vero e proprio allarme socio-economico-sanitario, tanto da essere considerata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità una priorità di salute pubblica (OMS e ADI 2016) e una delle principali cause di disabilità e dipendenza nel mondo (OMS, 2020).
Si stima che oltre 55 milioni di persone siano affette da una qualche forma di demenza in tutto il mondo (World Alzheimer Report 2021) e queste cifre, già sconvolgenti, sono destinate inesorabilmente a salire con proiezioni che arrivano a 78 milioni di malati nel 2030 per raggiungere i 135 milioni nel 2050 (ADI World Alzheimer Report 2015-2018-2021). Inoltre, gli ultimi dati, rileverebbero come ci siano in tutto il mondo moltissime persone che convivono con una demenza alle quali non è stata fatta (almeno il 75%), per varie ragioni, una diagnosi corretta (ADI World Alzheimer Report 2021).
Si stima che la maggior parte di queste persone sia affetta dal morbo di Alzheimer (50-70%), il 25-35 % da demenza vascolare, il 15% dalla demenza a corpi di Lewy e la percentuale restante dalle altre forme di demenza conosciute.
In Italia si registrano 1.2 milioni di persone affette da demenza (ISSN 2018), circa 1000 malati ogni 100.000 abitanti (GBT, Lancet 2019), tra l’1 e il 5% delle persone sopra i 65 anni d’età e il 30% degli individui ultraottantenni soffrirebbe di una qualche forma di deterioramento cognitivo.
Attualmente non sappiamo con certezza quali siano le cause che portano a sviluppare una demenza. Solo l’1% dei casi di demenza di tipo cortico-degenerativo come la demenza di Alzheimer è causata da una alterazione genica nota, mentre il restante 99% dei casi si manifesta in modo “sporadico” ovvero senza una correlazione genetica certa. L’unico gene sicuramente coinvolto nella malattia di Alzheimer è l’apoE4. Il 10-15% della popolazione europea lo possiede ma nei soggetti colpiti da demenza di Alzheimer la percentuale sale fino al 50%.
Viceversa, abbiamo maggiori conoscenze sui fattori scatenanti. Sappiamo, infatti, che qualsiasi forma di demenza è il risultato di due eventi: l’apoptosi, la morte delle cellule nervose cerebrali, e/o un malfunzionamento degli stessi neuroni a livello di comunicazione intercellulare (cioè tra una cellula e l’altra).
Attualmente la tesi più accreditata in ambito scientifico è quella multifattoriale. Più fattori di natura diversa (processi infiammatori o metabolici), apparentemente non direttamente collegati tra loro, concorrono ad innescare il processo degenerativo cerebrale. Essendo la demenza di Alzheimer la forma di deterioramento cerebrale più studiata l’analisi eziologica si riferisce precipuamente proprio all’Alzheimer.
Una delle ipotesi eziopatogenetiche per quanto riguarda la malattia di Alzheimer e le altre forme di demenza cortico-degenerative come la demenza a corpi di Lewy e la demenza frontotemporale, è legata ad aspetti di natura metabolica che si caratterizzano per la presenza, all’esterno e/o all’interno dei neuroni cerebrali, di anomali aggregati proteici detti inclusioni. Alcune delle proteine coinvolte in questa anomala formazione, sono la proteina precursore della beta amiloide (APP), la proteina tau (p-tau) e l’alfa-sinucleina.
L’accumulo più massiccio e tipico nel cervello dei malati di Alzheimer è correlato alla presenza della proteina precursore della beta amiloide (APP). Per ragioni ancora sconosciute ad un certo punto non viene più metabolizzata correttamente.
Questo processo degrada fino ad innescare il processo di deposito nel tessuto neuronale proprio della beta-amiloide, sostanza tossica che porta alla progressiva morte neuronale. L’APP forma le placche amiloidee che si interpongono tra i neuroni interrompendo definitivamente la comunicazione tra loro.
Da un punto di vista fisiopatologico la malattia di Alzheimer si caratterizza proprio per la presenza di queste minuscole ma diffusissime placche e per la presenza dei grovigli neurofibrillari di proteina tau-iperfosforilata (p-tau).
La proteina tau si sviluppa all’interno del neurone, nel citoplasma, mentre l’alfa-sinucleina, infine, genera degli agglomerati insolubili all’interno del citoplasma chiamati corpi di Lewy. Questi sono caratteristici della demenza a corpi di Lewy, ma si riscontrano anche nelle persone con morbo di Parkinson e nei soggetti affetti da atrofia multisistemica.
Un’altra ipotesi si base sulla presenza di oligomeri di beta amiloide, che, come le placche di amiloide, sarebbero neurotossici. Un’altra ipotesi prende in considerazione l’anomala circolazione nel tessuto neuronale di alcuni neurotrasmettitori come il glutammato. Studiato perché presente in molti dei processi infiammatori cerebrali, i più recenti studi ne hanno scoperto la sua altissima dannosità a causa della sua tossicità per il cervello.
Il processo neuroinfiammatorio è un’altra delle ipotesi prese in considerazione dagli studiosi perché sempre più studi lo porrebbero al centro della cascata citochinica, grave processo infiammatorio che contribuirebbe allo sviluppo patologico della malattia e alla sua progressione.
Nel modello di progressione dei biomarcatori di Clifford R. Jack (2013), si avanza l’ipotesi che siano i livelli di beta-amiloide nel liquido cerebrospinale e nel cervello a risultare alterati per primi quando la persona non manifesta alcun sintomo. Successivamente si osservano anche valori alterati di proteina tau, ipometabolismo diffuso con conseguente atrofia cerebrale.
Sebbene questo modello possa in parte spiegare il motivo per cui i sintomi cognitivi progrediscano nonostante l’accumulo di beta-amiloide si stabilizzi e nonostante i numerosi studi condotti per comprenderne le cause, i ricercatori non hanno ancora chiarito i meccanismi precisi che sottendono al processo neurodegenerativo che porta alla demenza.
L’esame post-mortem del tessuto cerebrale dei pazienti rivela la presenza di agglomerati anomali ma non si comprende ancora il motivo per cui nelle persone cerebralmente sane APP, tau e alfa-sinucleina non formano agglomerati pericolosi e quindi non causano il progressivo deterioramento del tessuto cerebrale interessato.
Nel caso in cui, viceversa, si generino agglomerati patogeni, non conosciamo ancora il motivo per cui questi crescono molto lentamente. Infine sconosciuto è anche il meccanismo naturale di difesa che interviene alla loro eliminazione.
Il percorso diagnostico terapeutico assistenziale (PDTA) delle demenze è articolato in più fasi.
Questa delicata fase si propone di cogliere tempestivamente i primi segni o sintomi che inducono a sospettare la presenza di una qualche forma di deflessione cognitiva.
Oltre ai famigliari e al paziente stesso, centrale in questa fase è la figura del medico di medicina generale (MMG). Infatti il MMG rappresenta il primo imprescindibile riferimento sanitario a cui rivolgersi.
Alla visita dal MMG il paziente e i famigliari posso raccontare al medico i sintomi notati o gli eventuali comportamenti allarmanti. Sarà poi il MMG a valutare tramite un test di screening lo stato cognitivo e comportamentale del suo assistito, ed eventualmente, decidere se richiedere esami ematochimici, strumentali o una valutazione cardiovascolare.
Successivamente, sulla base dei dati clinici raccolti, può consigliare d’intraprendere un percorso diagnostico più approfondito presso un centro specializzato sul territorio per i disturbi cognitivi e le demenze (CDCD).
La prima visita diagnostica presso un CDCD (geriatrico, neurologico o psichiatrico) prevede, oltre alla valutazione delle indicazioni fornite dal MMG, un’anamnesi accurata in grado di raccogliere informazioni per escludere temporanee condizioni bio-psico-sociali che possono dare alterazioni cognitive.
In questa fase è prevista la somministrazione di test di screening cognitivi, funzionali, psico-comportamentali e sociali, vengono programmati esami ematochimici di laboratorio più approfonditi, esami strumentali specifici (TC, RMN, fMRI, PET, SPECT, DAT-SCAN) e valutazione neuropsicologica:
In un clima accogliente e rassicurante ma che preserva l’ambiente sperimentale, si somministra al paziente una batteria standard di test neuropsicologici validata che esplorano tutte le funzioni cognitive, i disturbi psico-comportamentali e lo stato funzionale.
Può avvalersi, anche, di specifici test supplementari per generare un profilo neurocognitivo ancor più approfondito e preciso.
La seconda visita diagnostica presso un CDCD prevede la restituzione al paziente e ai famigliari del referto diagnostico completo e l’impostazione del trattamento farmacologico.
Nel contempo l’equipe può suggerire percorsi di terapia non farmacologica come la stimolazione cognitiva, interventi psicosociali per i famigliari come il Dementia Counseling (CD), oltre a fornire indicazioni su come utilizzare la rete dei servizi presenti sul territorio che possono aiutare sia il paziente che la sua famiglia (per esempio individuare i servizi che aiutano con le varie pratiche socio-amministrative, attivare i servizi domiciliari, avviare l’inserimento nel centro diurno, etc.).
E’ la vera e propria presa in carico del paziente. Questa fase prevede l’integrazione tra le varie figure coinvolte nella diagnosi (CDCD) e nelle cure primarie (MMG, assistente socio-sanitaria, etc.).
Viene monitorata l’evoluzione della malattia nel paziente cui è stata fatta la diagnosi di demenza, mentre il paziente con un quadro clinico ancora dubbio, incerto o sfumato viene valutato nuovamente da un punto di vista clinico e neuropsicologico.
Si aggiorna il piano terapeutico (PT), si monitora la risposta ai farmaci, l’andamento della cognitività attraverso una valutazione neurocognitiva di controllo, si verificano le condizioni cliniche, i bisogni del paziente, del caregiver, con il quale si valutano le eventuali problematiche assistenziali.
All’interno di questa fase, trovano spazio anche gli interventi non farmacologici, riabilitativi o di stimolazione cognitiva per il paziente e gli interventi di sostegno psicologico per il caregiver che deve assistere il malato.
Mirati a stimolare le capacità funzionali, motorie e cognitive residue, gli interventi di stimolazione cognitiva hanno anche un benefico impatto sull’umore e sui disturbi del comportamento.
Obiettivo primario degli interventi riabilitativi è quello di permettere alla persona affetta da demenza di esprimere le sue potenzialità mantenendo le proprie competenze e capacità più a lungo possibile.
I trattamenti non farmacologici (TNF) comprendono diverse tipologie d’intervento (vedi sotto) che possono essere rivolte sia alla persona con demenza, sia al caregiver formale ed informale che lo assiste. Per quanto riguarda la persona con declino cognitivo, gli interventi possono essere indirizzati più agli aspetti cognitivi e funzionali ma, per rendere più omogeneo ed efficace possibile l’intervento, possono essere integrati con interventi maggiormente orientati agli aspetti comportamentali, psicologici, sociali, ed ambientali.
Per quanto riguarda il caregiver, i trattamenti si riferiscono ad interventi informativi, formativi (psicoeducazionali) e/o psicologici (sostegno o psicoterapia).
Gli interventi non farmacologici diretti al paziente più efficaci e maggiormenti utilizzati possono approssimativamente essere divisi in:
Attività fisica e riabilitativa motoria (E.G. Karssemeijer et al., 2017; N. Atherton et al., 2016; H. Öhman et al., 2016; C. Groot et al., 2016; C. B. Guure et al., 2017; D. Forbes et al., 2015; Northey et al., 2018; Song et al., 2018; C. Di Lorito et al., 2020);
Riabilitazione logopedica (K. Swann, M. Hopper 2018; J. Kindle et al., 2015);
Interventi di stimolazione cognitiva
Terapia di riorientamento della realtà (ROT) (A. Spector et al., 2000; HY. Chiu et al., 2018; C. Carrion et al., 2018);
Terapia di reminescenza (B. Woods et al., 2018);
Terapia della validazione (H. Brodaty, C. Arasaratnam 2012);
Musicoterapia (MD. Onieva-Zafra et al., 2018; JT Van der Steen et al., 2018; J.B. King et al., 2019; M. Leggeri et al., 2019);
Terapia assistita con animali (S. Peluso et al., 2018; W. Stuart Pope, M. Yordy 2019; ML. Yakimicki, NE. Eduards 2019);
Arteterapia (B. Chancellor, A Duncan 2014);
Aromoterapia (L. Thorgrimsen et al., 2003);
Dementia care mapping (A. Barbosa, K. Lord, A. Blighe 2017; CA Surr et al., 2018-2020-2021; K. Lorenz et al., 2019; DM Meads et al., 2020; FD Schaap et al., 2021);
Terapia della bambola (G. Mitchell, H. O’Donnell 2013; Qin Xian Ng et al., 2017; R. Vaccaro et al., 2020; X. Cai et al., 2021; CK. Yilmaz, GD. );
Tecnologie assistite (M. Ienca et al., 2017; A. Pappadà et al., 2021);
Gentle Care (H. Brodaty, C. Arasaratnam 2012);
Terapia occupazionale (JL. Maud et al., 2007).
La malattia di Alzheimer (AD) è la causa di demenza più diffusa al mondo e rappresenta circa il 50-60% dei casi. E’ una malattia degenerativa del cervello che conduce alla morte progressiva delle cellule cerebrali, i neuroni.
La graduale perdita neuronale in specifiche aree corticali (regione temporale ippocampale), si estende lentamente ma inesorabilmente a tutto l’encefalo generando una diffusa atrofia corticale.
Le cause che portano alla malattia, come abbiamo visto sopra, sono attualmente sconosciute e, anche se vi sono diverse ipotesi eziopatogenetiche, nessuna attualmente può definirsi completamente esaustiva.
Come evidenziato precedentemente, più certa sembrerebbe la correlazione tra demenza di Alzheimer e presenza massiccia nel tessuto nervoso della proteina beta-amiloide e della proteina tau che, a causa di processi metabolici infiammatori e difettosi, portano all’inesorabile morte delle cellule cerebrali.
La malattia si manifesta in maniera differente da persona a persona ma i sintomi sono sostanzialmente condivisi da tutti i malati.
I sintomi più significativi e identificativi dell’AD sono essere:
Il decorso della malattia è caratterizzato da tre fasi:
1 – Fase iniziale o lieve
In una fase iniziale di malattia la persona fa fatica a ricordare fatti recenti, a trovare la parola giusta, a prestare attenzione, a ricordare il nome di persone, luoghi e oggetti, a organizzare e pianificare attività quotidiane, come ad esempio fare la spesa, preparare il pranzo, pagare le bollette.
Si possono riscontrare difficoltà nell’apprendere e trattenere nuove informazioni, nella capacità di pensare, di identificare oggetti, di comunicare coerentemente, di ricordare parole, di ritrovare oggetti di uso quotidiano, nella capacità di portare a termine compiti consueti o di orientarsi in luoghi familiari.
La persona può apparire confusa, avere comportamenti strani o inconsueti, repentini sbalzi di umore (passare dall’apatia all’agitazione e all’aggressività improvvisamente), presentare difficoltà di valutazione delle situazioni, trascurare l’igiene e il proprio aspetto, isolarsi da amici e familiari.
2 – Fase intermedia o moderata
La persona è sempre più spesso disorientata, ad esempio confonde la data corrente o il luogo in cui si trova, fa fatica ad apprendere o memorizzare nuove informazioni, ha difficoltà a comprendere le parole, a parlare e ha un bisogno crescente di assistenza per svolgere funzioni basilari come mangiare, vestirsi, andare in bagno, ecc.
In questa fase possono insorgere anche disturbi del comportamento più gravi come aggressività, apatia, vagabondaggio, frugare nei cassetti e armadi, affaccendamento afinalistico, ecc.
3 – Fase terminale
La persona è sempre meno autonoma, incapace di relazionarsi e comunicare adeguatamente, può manifestare un peggioramento dei disturbi psichici e del comportamento soprattutto se scarso o inadeguato è l’intervento protesico ambientale.
Fa sempre più fatica a muoversi e a deambulare autonomamente.
E’ spesso confinato tra letto e poltrona, incapace di alimentarsi e controllare urina e feci.
Fatica sempre più a riconoscere i familiari e le persone più vicine.
La variante frontale dell’AD raccoglie quella tipologia di pazienti con caratteristiche tipiche della demenza di Alzheimer, ma che manifestano in associazione anche specifici disturbi della sfera psico-comportamento (in primis apatia) e deficit a carico delle funzioni esecutive. Inoltre, sottoposti a genotipizzazione, questi soggetti sono risultati portatori dell’allele E4 dell’APOE (R. Ossenkoppele et al., 2015).
Le analisi morfologiche cerebrali hanno evidenziato che questi pazienti presentano un’atrofia significativa della regione temporo-parietale bilateralmente ma un minor impatto degenerativo a carico della corteccia frontale.
Sembrerebbe che la maggiorparte dei pazienti con profilo comportamentale, abbiano un più mite quadro clinico rispetto ai pazienti frontotemporali puri e alta prevalenza dell’allele E4 dell’APOE, mentre la variante disesecutiva presenterebbe un fenotipo prevalentemente cognitivo con difficoltà a carico delle attività esecutivo-centrali e con alterazioni comportamentali meno spiccate, con una prevalenza intermedia dell’allele E4 dell’APOE.
Alla luce delle specificità descritte e in base alle indicazioni fornite dalla più recente letteratura, si tende oggi a definire queste sindromi cliniche come “AD variante comportamentale/disesecutiva” piuttosto che AD variante frontale.
La demenza vascolare (VaD) è la seconda forma di demenza dopo la malattia di Alzheimer e diventa la prima nella popolazione over 85.
In passato questa malattia era chiamata arteriosclerosi cerebrale, un termine che veniva usato per indicare la quasi totalità dei disturbi dell’anziano. Adesso sappiamo che sotto il cappello della demenza vascolare si raggruppano forme eterogenee di deterioramento cognitivo cerebrovascolare.
Si manifesta con un declino delle capacità mentali direttamente correlato a scompensi nell’irrorazione sanguigna nel cervello che provocano lesioni cerebrali multiple (lesioni ischemiche).
Può essere causato da un singolo o da multipli infarti al cervello, ossia mancanza di afflusso di sangue in una o più aree cerebrali. Può essere una lesione causata da un singolo ictus massivo, oppure di ridotte dimensioni ma strategico, o ancora, da tante piccole lesioni vascolari che possono avere un effetto cumulativo (leucoaraiosi). Questi infarti cerebrali possono, in primis, alterare la capacità di movimento, causare debolezza in un braccio o una gamba, difficoltà di parola, alterazioni cognitive soprattutto delle funzioni centrali esecutive come il ragionamento o l’attenzione e cambiamenti della personalità sia sul versante ansioso con frequenti esplosioni emotive che sul versante apatico-depressivo.
L’inizio della VD può essere improvviso poiché possono verificarsi molti micro-infarti prima che appaiano i sintomi. Il decorso può essere discontinuo o a “scalini”. Le capacità cognitive possono deteriorarsi, poi stabilizzarsi per un certo periodo e deteriorarsi nuovamente. Questi infarti possono danneggiare aree del cervello responsabili in modo selettivo di una funzione specifica (spesso il linguaggio o le funzioni esecutive frontali) oppure produrre dei sintomi generalizzati di demenza. Spesso coesiste con alla malattia di Alzheimer e quando ciò accade siamo di fronte ad un quadro chiamato “demenza mista“.
Colpisce sia uomini che donne.
Viene solitamente diagnosticata per mezzo di esami neurologici, valutazione neuropsicologica e tecniche strumentali di esplorazione cerebrale, come la Tomografia Assiale Computerizzata (TAC) o la Risonanza Magnetica Nucleare (RMN), che permettono di individuare con precisione gli ictus cerebrali.
Piccoli ictus (conosciuti come TIA – attacchi ischemici transitori) possono essere dei segnali di un ictus imminente più massivo. Perdita temporanea della vista, difficoltà di parola, brevi episodi di “numbness” possono segnalare un TIA.
I principali fattori di rischio sono:
E’ importante identificare i fattori di rischio perché spesso il loro trattamento specifico può modificare la progressione della malattia.
I farmaci possono controllare l’ipertensione, il diabete e le malattie cardiache. Si possono usare gli anticoagulanti, particolarmente quando il battito cardiaco è irregolare.
Si possono, inoltre, ridurre i fattori di rischio adottando uno stile di vita salutare facendo esercizi fisici regolarmente, seguendo buona dieta, avendo un buon sonno ristoratore, non fumando, non bevendo alcolici e riducendo lo stress (per approfondimenti vedi la sezione sulla prevenzione).
Dopo un ictus si possono prescrivere farmaci per migliorare la circolazione del sangue al cervello e ridurre i rischi di un ictus futuro.
Si possono utilizzare anche terapie del movimento e del linguaggio, stimolazione cognitiva, fisioterapia, terapia occupazionale.
L’insorgenza della malattia può essere relativamente improvvisa e preceduta da micro infarti che possono danneggiare aree cerebrali responsabili di una funzione specifica o essere la causa di sintomi associati alla demenza che potrebbero essere confusi con la malattia di Alzheimer.
I sintomi di una demenza vascolare possono essere molto diversi a seconda dell’area del cervello colpita.
Tendenzialmente sono i disturbi motori a caratterizzare la patologia. Ad esempio si può riscontrare stanchezza, spossatezza, un generale rallentamento della motilità, difficoltà nell’equilibrio, difficoltà nella deambulazione che si esprime con una riduzione e incertezza del passo, difficoltà sia negli spostamento che nei movimenti fini.
Sul versante cognitivo si posso registrare difficoltà nelle capacità di linguaggio e nella comunicazione in genere, complicazioni che si possono manifestare con problemi di comprensione o espressione verbale, difficoltà di attenzione e concentrazione, ragionamento logico e astratto, esecuzione di compiti nella corretta sequenza temporale, programmazione e giudizio critico.
Anche l’umore tende a modificarsi. Si possono esacerbare tratti caratteriali pregressi o possono manifestarsi disturbi di personalità totalmente nuovi. Questi possono esprimersi tanto con sbalzi d’umore, perdita interessi, abulia, apatia e depressione, quanto con sproporzionata agitazione, irrequietezza, apprensione, in base all’area neuroanatomica maggiormente colpita.
A differenza della malattia di Alzheimer, i disturbi della memoria NON sono il sintomo principale.
Esistono diverse forme secondarie o sottotipi di demenza vascolare:
La demenza fronto-temporale (DFT), in passato nota come malattia di Pick, è la seconda causa di demenza degenerativa dopo il morbo di Alzheimer ma, nonostante ciò, purtroppo non viene ne correttamente ne tempestivamente riconosciuta.
Spesso i sintomi vengono sottovalutati e confusi con quelli di una malattia psichiatrica oppure considerati come segni aspecifici di demenza di Alzheimer.
Come la malattia di Alzheimer, è una demenza progressiva che colpisce, però, prevalentemente specifiche aree neuronali come i lobi frontali e temporali.
In alcuni casi le cellule del cervello si restringono o muoiono, in altri aumentano notevolmente il loro volume proprio perché contengono i “corpi di Pick” che danno proprio origine alla variante di Pick.
In entrambe le situazioni questi cambiamenti influiscono significativamente sul comportamento del soggetto colpito.
Poichè l’atrofia neurodegenerativa colpisce le aree frontali e temporali del cervello, i primi e più importanti sintomi sono i cambiamenti del comportamento e le alterazioni del linguaggio. Si verificano notevoli cambiamenti nella personalità dell’individuo, che può modificare radicalmente la propria personalità, diventando disinibito, irresponsabile, sgarbato, arrogante, non più in grado di comportarsi in modo adeguato e conveniente e senza rispettare le convenzioni sociali. Può perdere interesse per l’igiene personale, distrarsi facilmente, ripetere continuamente la stessa azione. Talvolta diventa anche incontinente nei primi stadi della malattia.
I problemi del linguaggio possono andare dalla diminuzione alla perdita totale della parola. Sintomi comuni sono la cantilena, le balbuzie e la ripetizione delle parole appena ascoltate dagli altri. Può avere difficoltà a seguire una conversazione, perdere la capacità di leggere e scrivere. Nelle prime fasi della malattia i problemi del comportamento e quelli del linguaggio possono apparire separatamente, ma quando la malattia progredisce questi due problemi si sovrappongono.
Diversamente dal malato di Alzheimer è orientato nel tempo e, perlomeno nelle prime fasi di malattia, conserva sufficientemente la capacità mnesica.
Negli stadi avanzati di malattia si presentano i sintomi generali della demenza, come confusione, disorientamento, perdita di memoria e anche le abilità motorie si deteriorano.
La demenza frontotemporale colpisce sia uomini che donne, ha un esordio precoce rispetto alle altre forme di demenza, generalmente inizia tra i 50 e i 60 anni di età e ha un decorso molto più veloce, con una durata media di circa 6-8 anni.
Sconosciute sono le cause, ancor meno i fattori di rischio che possono portare a questo tipo di demenza e nella maggior parte dei casi la malattia si definisce sporadica.
Il deterioramento progressivo delle cellule nervose dei lobi frontali e temporali avviene a causa dell’accumulo straordinario di aggregati proteici anomali tra cui la proteina tau, proteina dei microtubuli, piccole strutture intracellulari che regolano il trasporto di elementi all’interno della cellula nervosa. Quando inizia a generarsi la proteina tau, i microtubuli non riescono più a svolgere la loro normale attività e il neurone è destinato a morire.
Viceversa abbiamo maggiori conoscenze sulle forme a componente genetica, le forme famigliare trasmesse di generazione in generazione che rappresentano circa un terzo dei casi. I geni, che se mutano innescano la malattia, sono almeno 3: MAPT, GRN e C90RF72.
Il MAP è un gene autosomico dominante che risiede nel cromosoma 17 coinvolto nella sintesi della proteina tau, mentre gli altri 2 geni, che risiedono rispettivamente sul cromosoma 17 e 9, insieme cooperano alla sintesi e al funzionamento di un’altra proteina chiamata TDP43. Le forme genetiche di demenza frontotemporale sono molto aggressive da un punto di vista sintomatologico e particolarmente precoci (insorgenza intorno ai 40/50 anni di età).
Attualmente non esiste una terapia risolutiva e il decorso non può essere rallentato.
Caratteristiche generali della demenza fronto-temporale
Malattia di Pick
E’ caratterizzata dalla presenza massiccia di corpi di Pick nelle aree cerebrali frontali e temporali.
I corpi di Pick sono inclusioni intracellulari filamentose composte da neurofilamenti in cui si rileva un cospicuo accumulo di proteina tau. Non sembra essere collegata ad alcuna mutazione genetica e tendenzialmente insorge dopo i 50 anni di età.
I sintomi possono sostanzialmente sovrapporsi a quelli della demenza frontotemporale anche se sembrerebbero essere più gravi le espressioni psico-comportamentali.
Il paziente modifica radicalmente la sua personalità adottando stili di vita francamente pericolosi, incoerenti e illogici.
Il linguaggio perde molto precocemente e rapidamente la sua capacità espressivo-espositiva ma rimarrebbe conservata la capacità di scrivere e leggere.
Demenza semantica
La malattia fa sempre parte della famiglia delle demenze frontali ma è una degenerazione cerebrale focale con caratteristiche specifiche in cui risultano colpite maggiormente le aree corticali temporali piuttosto che quelle frontali.
La conferma della specificità della demenza semantica e del suo correlato neuroanatomico, ci viene dal famoso studio sui soggetti residenti a Manchester (J Neur Neurosurg Psychiatry 1994) affetti da FTD. In questo studio si riscontrava un aumento nel tempo dei disturbi semantici molto più frequentemente nei pazienti con alterazioni comportamentali quali iperattività e disinibizione (tipo orbitofrontale), rispetto ai pazienti che manifestavano apatia o inerzia (tipo dorsolaterale). Ciò suggerirebbe una correlazione lineare tra progressione della malattia e atrofia dei lobi temporali, nel senso che, all’aumentare delle difficoltà semantiche aumenta l’atrofia temporale.
La neurodegenerazione dalla corteccia orbito-frontale si espande posteriormente aggredendo anche le aree temporali. Questa prevalente caratteristica neuroanatomica genera un quadro clinico in cui il paziente sviluppa più problematiche di linguaggio che comportamentali.
Le difficoltà si manifestano precipuamente con una radicale perdita della capacità semantica di riconoscimento delle persone e degli oggetti e nella comprensione del linguaggio e del metalinguaggio (inclinazione della voce, mimica, posture).
Le persone affette da questo tipo di demenza parlano, leggono e scrivono anche fluentemente e correttamente da un punto di vista grammaticale, ma non sanno più chiamare le cose con il loro nome (anomia), non afferrano il significato delle parole e non riescono a denominare gli oggetti.
Inoltre, le persone colpite da questa variante, possono non riconoscere più i rumori, i suoni, gli odori, i sapori e gli stimoli tattili.
Questo sottotipo di demenza frontale è particolarmente subdola e non semplice da riconoscere perché il disturbo è molto sfumato e mimetico.
Il paziente, mantenendo una discreta capacità adattiva ed avendo una produzione verbale sufficientemente fluente, fornisce una impressione superficiale di facilità di linguaggio in grado di mascherare il sottostante deficit semantico.
Un paziente può, ad esempio, facilmente riconoscere un cavallo e dirci che il cavallo è un animale e non un tavolo ma non sa descrivere quanto sia differente da una zebra.
Afasia primaria progressiva
L’afasia primaria progressiva (APP), sebbene venga ancora considerata una variante della demenza frontale e per comodità espositiva la manteniamo in questa sezione, i più recenti studi scientifici evidenziano come in realtà la si debba considerano come un eterogeneo gruppo di atrofie corticali focali progressive di natura neurodegenerativa.
E’ una specifica sindrome clinica caratterizzata da selettivi quanto progressivi deficit a carico del linguaggio su base neurodegenerativa che presenta peculiarità patogenetiche comuni all’AD.
In generale i soggetti colpiti da APP manifestano tipicamente disturbi dell’area del linguaggio, difficoltà nella capacità di comunicare fluentemente o di reperire parole, possono comprendere ciò che sentono o leggono, ma parlano in modo stentato e sgrammaticato (agrammatismo), usano parole sbagliate, magari in assonanza con quelle che vorrebbero pronunciare, e il loro vocabolario si contrae costantemente.
L’APP si suddivide in 3 sottovarianti:
Le prime due sono ritenute forme di FTD, mentre l’ultima è spesso associata all’AD di cui condivide i meccanismi patogenetici.
Criteri d’inclusione:
Criteri di esclusione:
La demenza a corpi di Lewy (LBD) è una demenza progressiva che ha alcune caratteristiche tipiche della malattia di Alzheimer e altre tipiche del morbo di Parkinson.
La malattia fu scoperta nel 1912 da F.H. Levi, il cui nome divenne “Lewy” nella traduzione dal tedesco. E’ la terza demenza per frequenza e il suo esordio è tipicamente situato dopo i 60 anni di età. Diversamente dalla malattia di Alzheimer in cui i neuroni muoiono, nella malattia a corpi di Lewy solo il 10-15% dei neuroni scompare.
E’ caratterizzata dalla presenza nei tessuti neuronali di aggregati proteici anomali citoplasmatici, chiamati appunto corpi di Lewy, che gradualmente danneggiano le cellule nervose e il cui meccanismo di formazione è ancora sconosciuto.
Questi si sviluppano nella corteccia cerebrale compromettendo il funzionamento neurotrasmettitoriale e le vie neuronali tra striato e neocorteccia, ma anche nella substantia nigra.
La proteina sinaptica alfa-sinucleina, componente centrale di questi aggregati anomali, è presente anche nei cervelli sani, ma non si conoscono ancora i motivi per cui contribuisce al processo neurodegenerativo, ne quale sia la sua funzione.
I sintomi principali della LBD sono:
In questi pazienti affetti da LBD si riscontra la progressiva difficoltà di attenzione, la fluttuazione di questa attività cognitiva e dello stato clinico in generale anche all’interno della stessa giornata, problemi a carico dell’apparato motorio, oltre che dall’insorgere di allucinazioni visive non particolarmente strutturate spesso a contenuto pauroso (insetti o scarafaggi) ed episodi confusionali.
Durante le fasi iniziali la struttura mnesica può essere colpita ma non in maniera rilevante e il deficit di rievocazione è più correlato al disfunzionamento dell’attività attenzionale.
Fin dall’inizio insorgono difficoltà visuo-percettive, di ordine esecutivo come programmazione e organizzazione, ma anche difficoltà di adattabilità e motivazione.
Dal punto di vista motorio le caratteristiche parkinsoniane, compaiono successivamente o contemporaneamente ai disturbi cognitivi.
I sintomi extrapiramidali che prevalentemente si riscontrano sono le cadute, la rigidità, la bradicinesia e i deficit a carico della deambulazione che risulterebbe più rallentata e insicura.
Rilevante, anche se meno indagato in fase diagnostica, è il disturbo del sonno, che si configura come un disturbo del comportamento del sonno REM, una parasonnia caratterizzata da sogni vividi senza la fisiologica paralisi dei muscoli scheletrici durante il sonno, con il risultato che il sonno può essere agitato a tal punto da procurare anche delle lesioni a chi dorme affianco al paziente.
La malattia a corpi di Lewy è diversa dalla malattia di Alzheimer perché il suo decorso è di solito più rapido.
Infine, per quanto concerne il trattamento, i farmaci anticolinesterasici possono migliorare le funzioni cognitive, i farmaci antiparkinsoniani possono migliorare i sintomi motori ma peggiorare quelli psichiatrici, mentre i farmaci sedativi o gli antipsicotici peggiorano acutamente i sintomi motori.
La malattia colpisce sia uomini che donne, non se ne conosce la causa, non sono stati identificati fattori di rischio e attualmente non esiste una terapia risolutiva.
La malattia di Creutzfeldt-Jacob (CJD) è una forma di demenza progressiva caratterizzata da perdita di cellule nervose e degenerazione delle loro membrane che provoca piccoli buchi nel cervello.
L’esordio e il decorso sono rapidi.
I primi sintomi includono perdita di memoria, alterazioni del comportamento, perdita interessi, mancanza di coordinazione.
Successivamente possono apparire problemi di vista, movimenti involontari (specialmente spasmi muscolari) e rigidità degli arti.
E’ possibile che il malato perda rapidamente la capacità di movimento e di linguaggio.
Colpisce uomini e donne e l’esordio è normalmente tra i 45 e i 75 anni. Può essere ereditaria o infettiva. Si ritiene che l’agente infettivo sia una forma anormale della proteina dei prioni (PrP). Non è infettiva come una comune influenza, ma viene trasmessa solo attraverso l’assunzione di alimenti infetti e non ci sono rischi particolari per chi assiste i malati. L’agente infettivo viene paragonato ad un “virus lento” poichè ha un lungo periodo di incubazione (1-30 anni). Una volta apparsi i sintomi, il decorso è rapido. A seconda della forma, la malattia può durare da 6 mesi a molti anni dall’esordio.
Attualmente non ci sono mezzi per rallentare il decorso della malattia. Sono disponibili alcuni farmaci sintomatici per alleviare solo i problemi motori.
Si conoscono quattro forme di CJD:
La malattia di Hungtinton è una malattia degenerativa cerebrale rara (colpisce 5-10 persone ogni 100.000 abitanti), descritta per la prima volta da George Huntington nel 1872. E’ ereditaria e progressiva e compare solitamente nella mezza età ed è caratterizzata da declino intellettivo e movimenti irregolari ed involontari degli arti e dei muscoli facciali.
Il termine “corea” deriva dal greco danza e richiama proprio i tipici movimenti coreici che i pazienti manifestano: involontari, accidentali, rapidi, aritmici che coinvolgono gli arti, il viso, il collo e il tronco.
La malattia di Hungtinton nella sua forma classica si manifesta in età adulta intorno ai 40-50 anni, ma esistono anche forme particolarmente aggressive ad insorgenza molto precoce (20 anni).
I sintomi patognomonici sono:
La sintomatologia lentamente degenera e, in genere, la morte arriva tra i 15 e i 25 anni dopo l’insorgenza dei primi sintomi, spesso per arresto cardiaco o per una polmonite ab ingestis (infiammazione polmonare dovuta all’ingresso di sostanza estranee nei bronchi come il cibo).
La causa della malattia di Huntington è dovuta ad una mutazione del gene HTT che produce una ripetizione anomala di una specifica sequenza di DNA.
Questo processo porta alla formazione di una proteina mutata chiamata Huntingtina caratterizzata da una lunga coda di glutammine. Essendo questa una proteina tossica per il SNC, quando la glutammina aumenta oltre un certo livello, porta alla morte neuronale. Più è lunga la coda poliglutamminica, più la malattia sarà precoce e grave.
Le zone cerebrali maggiormente colpite sono quelle più profonde, ma con il progredire della malattia, vengono colpiti anche i neuroni corticali superiori e l’atrofia si espande in modo massiccio e diffusa in tutto il cervello.
E’ causata da un gene localizzato su un cromosoma autosomico, presente in entrambi i sessi.
Per questo motivo colpisce sia uomini che donne. E’ dominante quindi è sufficiente una sola copia del gene mutato, per ereditare la malattia da uno dei due genitori. Questo significa che il 50 % delle persone che hanno un genitore affetto da corea di Huntington possono sviluppare la malattia.
Esiste un test genetico predittivo capace di individuare la presenza della mutazione nel gene HTT per determinare se un adulto ha il gene ereditario responsabile della malattia.
Questo test genetico può essere fatto anche da chi non ha alcun sintomo ma evidenti fattori di rischio ereditario.
Gli altri step diagnostici sono:
Sebbene non ci siano attualmente trattamenti disponibili per far regredire la sintomatologia o arrestarne la progressione, i disordini del movimento ed i sintomi psichiatrici possono essere ben controllati con farmaci specifici (antagonisti della dopamina, farmaci antiparkinsoniani, etc.), mentre per le persone che sviluppano un decadimento cognitivo possono essere utilizzati anche i farmaci anticolinesterasici.
La demenza di Parkinson (PD) è un disturbo neurodegenerativo progressivo che si instaura sulla malattia di Parkinson.
Il Parkinson è una patologia neurodegenerativa ad evoluzione lenta ma progressiva che colpisce strutture profonde del cervello come i gangli della base (nucleo caudato, putamen, pallido), deputati al controllo delle attività motorie e all’esecuzione dei movimenti.
Il neurotrasmettitore principale coinvolto in questi processi motori è la dopamina.
Il cervello dei pazienti affetti da Parkinson, hanno una carenza spiccata di dopamina, a causa della massiccia perdita neuronale che si verifica soprattutto nella substantia nigra (il 60-70% dei neuroni di quest’area muore). Inoltre, sia nel midollo che nel cervello, iniziano ad accumularsi aggregati proteici anomali della proteina alfa-sinucleina chiamati corpi di Lewy.
Sembrerebbe che sia proprio l’aumento di questa proteina alfa-sinucleina nel corso della malattia a portare alcuni pazienti a sviluppare una specifica forma di demenza le cui caratteristiche ricordano quelle delle malattia di Alzheimer e della demenza vascolare. Per cui, questi pazienti affetti da malattia di Parkinson, oltre ad avere un peggioramento dei tipici sintomi motori asimmetrici tra cui il tremore a riposo, la rigidità agli arti ed alle articolazioni, la bradicinesia, l’instabilità posturale, la difficoltà nell’eloquio, sviluppano anche alterazioni cognitive soprattutto a carico della funzione prassico-visuospaziale ma anche a carico della memoria, dell’attenzione e delle funzioni esecutive.
La demenza associata ad HIV (HAND), anche definita AIDS dementia complex (ADC), è una forma di deterioramento cognitivo progressivo correlato all’infezione cerebrale da virus dell’immunodeficienza umana (HIV).
Questa forma di demenza tende a manifestarsi in giovane età e progredisce linearmente con l’evoluzione patologica dell’infezione da HIV fino a sfociare in una vera e propria demenza quando il virus infetta inesorabilmente il cervello danneggiando gradualmente le cellule nervose.
Infatti si parla di una forma lieve di deflessione cognitiva chiamata HIV-associato a disturbo neurocognitivo (HAND), quando si presentano in fase di malattia i primi sintomi cognitivi.
Questa forma lieve si manifesta in circa il 10-30 % dei soggetti affetti da HIV (J. Huang, MSD 2021), mentre la forma di demenza conclamata si registra in circa il 15-20% dei pazienti malati (M.Kopstein et al., Statpearls 2022).
In questo spettro legato alla progressione del danno cognitivo si classificano anche i quadri di deterioramento cognitivo asintomatico (ANI) e i profili che rientrano nella categoria di disturbo neurocognitivo minore (MND).
I sintomi d’esordio sono prevalentemente:
Il percorso diagnostico prevede l’esame approfondito neurologico, la RMN e la valutazione neuropsicologica specifica.
La terapia antiretrovirale utilizzata per i pazienti affetti da infezione da HIV generalmente aiuta a migliorare i sintomi cognitivi o a tenerli sotto soglia ma, se risulta poco efficace, il paziente peggiora il suo stato clinico e di conseguenza peggiora il suo quadro dementigeno.
L’idrocefalo normoteso (NPH) è una condizione patologica che porta ad una ostruzione del normale flusso cerebrospinale e al conseguente accumulo di liquor (liquido cefalorachidiano) sotto tensione nel sistema ventricolare che progressivamente si dilata.
Questo blocco che causa un aumento volumetrico del liquido cerebrospinale nel cervello, si evidenzia con il famoso quadro sintomatologico definito triade di Hakim:
L’idrocefalo normoteso può classificarsi come:
Attualmente, con gli strumenti conosciuti, non è possibile porre diagnosi certa di NPH. Pertanto è l’insieme degli elementi clinici e radiologici che permettono di porre diagnosi di probabile NPH.
La tecnica di neuroimaging con Risonanza Magnetica (RMN dinamica) è fondamentale per documentare la dilatazione tetraventricolare, che però può essere fuorviante se non supportata da una valutazione neuropsicologica approfondita e da una attenta osservazione clinica.
Recentemente sono state introdotte metodiche di valutazione specifiche della RMN e nuovi protocolli di esecuzione dell’esame che hanno molto migliorato l’affidabilità diagnostica. Una tecnica innovativa è la cineRM, metodo che permette di studiare la fluidodinamica del liquor.
Tra i test clinici è importante il test di sottrazione liquorale che consente, attraverso l’esecuzione di una puntura lombare, di valutare:
Se tutti gli elementi confermano la diagnosi di idrocefalo normoteso si può propendere per l’intervento neurochirurgico e correggere tale condizione con l’inserimento di uno “shunt” che trasporta il liquido fuori dal cervello.
L’intervento neurochirurgico prevede il posizionamento di una valvola di derivazione del liquido cefalorachidiano dai ventricoli cerebrali al peritoneo (tecnica più diffusa) o all’atrio cardiaco.
L’atrofia corticale posteriore (PCA) conosciuta anche come Sindrome di Benson, è considerata una variante atipica dell’Alzheimer (AD).
Rispetto ad altre forme di demenza, spesso colpisce in età precoce (a partire dai 40 anni) provocando un’atrofia della parte posteriore della corteccia cerebrale, con conseguente progressiva interruzione dell’elaborazione visiva complessa.
Dal punto di vista neuropatologico ha tendenzialmente le medesime peculiarità della demenza di Alzheimer (placche di amiloide e grovigli neurofibrillari), ma in molti soggetti affetti da PCA si sono riscontrate le anomalie cerebrali tipiche della LBD o della CJD, infatti in alcune persone affette da demenza a Corpi di Lewy o da malattia di Creutzfeldt-Jakob, si riscontra anche la tipica sintomatologia da PCA.
L’esordio della malattia è molto precoce (tra i 50 e 60 anni) e le anomale caratteristiche d’esordio di questa forma di demenza possono essere fuorvianti per il clinico in sede diagnostica (spesso il primo specialista ad essere interpellato è l’oculista).
Infatti, essendo caratterizzata per la graduale e progressiva degenerazione della corteccia posteriore del cervello, area responsabile della processazione dell’informazione visiva, il sintomo d’esordio viene erroneamente interpretato dal paziente come problema meramente visivo.
I sintomi primari della PCA sono, soprattutto all’esordio, visivi e riguardano la lettura in linea, l’interpretazione corretta delle distanze, la capacità di discernere se un oggetto è in movimento o è stazionario, l’incapacità a percepire più di un oggetto per volta.
A questo quadro di deficit visuo-percettivo, si possono accompagnare anche disturbi quali il disorientamento spaziale, l’identificazione e l’utilizzo corretto di strumenti o oggetti di uso comune, allucinazioni visive, discalculia, difficoltà di memoria, ansia generalizzata.
La Paralisi sopranucleare progressiva (PSP), conosciuta anche come Sindrome di Steele-Richardson-Olszewski, è caratterizzata da una perdita progressiva e selettiva di neuroni responsabili del controllo dei movimenti oculari, dell’equilibrio, della parola e della deglutizione.
I sintomi possono insorgere già intorno ai 40 anni e all’esordio il primo sintomo sentinella è solitamente la rigidità del tronco che rende difficile camminare e aumenta il rischio di cadute anche per la difficoltà a guardare verso il basso senza piegare il collo.
Con il progredire della malattia guardare intenzionalmente verso l’alto o il basso diventa sempre più complesso, così come seguire con lo sguardo un oggetto in movimento.
Verso la fine della malattia anche guardare da un lato diventa complicato, gli occhi sembrano essere paralizzati nelle orbite, i muscoli diventano rigidi e i movimenti estremamente rallentati. L’andatura risulta instabile ed aumenta il rischio di cadere all’indietro. L’eloquio e la deglutizione sono compromessi e il paziente può manifestare anche insonnia, apatia o viceversa agitazione, irritabilità e labilità emotiva.
Rispetto alle altre forme di demenza la PSP progredisce molto rapidamente e solitamente la morte insorge per infezione tra i 5 e gli 8 anni dall’insorgenza della sintomatologia.
La degenerazione cortico-basale (DCB) è una rara malattia degenerativa del SNC ad evoluzione molto rapida che si manifesta dopo i 60 anni di età. E’ caratterizzata dalla progressiva e irreversibile perdita delle cellule nervose e dall’atrofia progressiva di specifiche aree del cervello tra cui la corteccia cerebrale e i gangli della base.
Da un punto di vista sintomatologico si esprime con la repentina perdita di alcune funzioni cerebrali:
Questa forma di demenza chiamata adesso encefalopatia traumatica cronica (CTE) è una degenerazione progressiva delle cellule nervose cerebrali dovuta a uno o più traumi cranici ripetuti nel tempo.
Questo tipo di neurodegenerazione da ripetute concussioni di gravità anche non elevata, si riscontra perlopiù in ex atleti (soprattutto chi ha svolto per molti anni pugilato, football americano o altri sport di contatto), ma anche tra i soldati esposti a esplosioni ripetute e ravvicinate.
Non si conoscono ancora le cause per cui solo un 2-3 % dei soggetti esposti ripetutamente a concussioni anche minori, sviluppi successivamente una demenza (J. Huang MSD 2021).
I sintomi principali sono:
Di natura ereditaria, è una malattia neurodegenerativa i cui sintomi includono perdita dell’equilibrio e scarsa coordinazione muscolare. I sintomi cognitivi più tipici nella demenza si presentano negli ultimi stadi della malattia.
L’assunzione prolungata ed eccessiva di alcolici e superalcolici può portare a una forma di decadimento cognitivo. Se trattata, si cessa completamente di bere e si segue una dieta equilibrata, può, almeno in parte, regredire.
Viceversa se l’abuso di alcol diventa cronico può causare la sindrome di Korsakoff, caratterizzata per una perdita importante della memoria (amnesia anterograda).
Sebbene si manifesti con un deterioramento della memoria, la sindrome di Korsakoff non è considerata una vera e propria forma di demenza.
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